Si è chiusa la recente “VI Conferenza Nazionale sulle Dipendenze – Oltre le fragilità”, così come è stata presentata dal Ministro Dadone. Forse, in molti, nemmeno sanno che, la legge che la prevede, la chiama, in realtà, “Conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope”. La conferenza è prevista dal “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”: il D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

A cosa dovrebbe servire la Conferenza? Lo dice la legge: “Ogni tre anni, il Presidente del Consiglio dei Ministri, nella sua qualità di Presidente del Comitato nazionale di coordinamento per l’azione antidroga, convoca una conferenza nazionale sui problemi connessi con la diffusione delle sostanze stupefacenti e psicotrope alla quale invita soggetti pubblici e privati che esplicano la loro attività nel campo della prevenzione e della cura della tossicodipendenza. Le conclusioni di tali conferenze sono comunicate al Parlamento, anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa”.

Apparentemente la norma è chiara, eppure la Conferenza è diventata , sin dalle prime edizioni, qualcosa di diverso: soprattutto un palcoscenico dove rappresentare pubblicamente le posizioni politiche del Governo, e, come immediata conseguenza, della maggioranza e dell’opposizione. Questo, però, ha sempre soffocato la, pur esistente parte “tecnica” dei soggetti pubblici e privati, operanti nel campo della prevenzione e della cura della tossicodipendenza, spostandola in secondo piano, compressa in “sintesi finali” di gruppi di lavoro, solidamente condotti da Coordinatori scelti dal Dipartimento Politiche Antidroga. Sintesi che non ho mai capito se, a parte la rappresentazione alla assemblea, riunita nella Conferenza, siano state davvero utilizzate dal Parlamento, a livello legislativo, in qualche occasione.

La Conferenza ha, inoltre, sempre avuto un problema di fondo: non è mai stato chiaramente esplicitato il criterio di partecipazione e di rappresentanza dei soggetti pubblici e privati che esplicano la loro attività nel campo della prevenzione e della cura della tossicodipendenza. Personalmente, ma può essere un mio limite, non ho mai compreso cosa si intenda esattamente con l’espressione “soggetti pubblici e privati”.  Tipica è la posizione delle Organizzazioni di settore, dalle Società Scientifiche alle Associazioni di Comunità. Tendono, ovviamente, ad essere rappresentative, anche se si collocano su piani logici differenti quando, di volta in volta, si esprimono sia come portatrici di un sapere tecnico, che come rappresentanza di Professionisti, oppure di Gestori di imprese sociali, di Servizi di cura o anche, a volte, delle persone assistite. Una rappresentatività che, in ambito socio-sanitario, finisce per dimenticare, in posizioni defilate, le Aziende Sanitarie Locali (diversamente denominate nei diversi territori) delle Regioni ed i Comuni. Poco compaiono in questi consessi, ma sono portatori di esperienza e titolari di risorse economiche e poteri decisivi, rispetto alle azioni di prevenzione e cura possibili, nei territori di riferimento.

Così, il lavoro tecnico che contorna la conferenza, è spesso un assemblaggio di tematiche che si articolano su piani logici diversi e che dovrebbero avere anche, e non di rado, interlocutori differenti dal Parlamento. Sono il frutto dell’impegno di chi vi partecipa e, soprattutto, di chi è invitato ed accreditato dal Dipartimento Politiche Antidroga, e ne condivide il percorso. L’interlocutore principale diventa così, normalmente, non tanto il Parlamento, come sarebbe previsto dalla Legge, ma il Governo, impersonato dal delegato del Presidente del Consiglio alle Politiche Antidroga. In questo caso, un Ministro: Fabiana Dadone. E’ proprio questo un punto di debolezza e di frattura. Non per nulla, magari sbaglio, ma non mi è sembrata casuale l’assenza del Ministro della Salute.

Va da sé, comunque, che se un Governo ha già chiara una linea di intervento che vuole perseguire, non la mette certo in discussione, più di tanto, con gruppi di lavoro ad accesso spontaneo, se non per testarne la reazione, perché ha già consultato, per elaborarla, gli esperti ritenuti più adatti, esattamente come normalmente fanno tutte le forze politiche, quando decidono di esprimere una nuova legge o modificarne una già in vigore.

Si ritorna così alle politiche ed alla politica. Se il Parlamento, tramite la Conferenza, avesse effettivamente richiesto, a chi si occupa di prevenzione e cura, un parere sulle modifiche della legislazione in ordine alla legalizzazione ed alla regolamentazione della cannabis, per usi non terapeutici, che è un tema nodale, vista la possibile indizione di un referendum, avrebbe avuto risposte contrapposte, così come già sono a livello delle parti politiche. Perché non è stato fatto?

Probabilmente perché la “divisività” del tema, che attraversa la politica, si sarebbe riversata sull’ambito tecnico. Un fatto inaccettabile per un Organismo che, nato in tempi di guerra alla droga, doveva rappresentare il Sistema di Intervento, come un fronte di “combattenti”, unito e compatto, sebbene disponibile a democratici confronti. E’ possibile che, anche questa, sia una ragione della mancata convocazione della Conferenza, per tredici anni, nonostante la legge la vorrebbe ogni tre. Se, il solo discutere di temi “caldi” (la legalizzazione è solo uno degli esempi possibili) che interessano l’ambito legislativo, crea più problemi che soluzioni, la perdita di senso di questo Organismo, diventa inevitabile.

Inoltre sia il Dipartimento Nazionale Politiche Antidroga che Conferenza Nazionale, esistono in relazione ad una legge che riguarda la “disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope” intese come droghe illecite. Un “regime speciale”, che ha a che fare con il “contrasto” ai comportamenti illeciti ed alla devianza, a cui, direttamente o indirettamente, vengono riferiti i Servizi Dipendenze e le Comunità, e che ha prodotto, nel tempo, il progressivo isolamento del settore della cura delle dipendenze, dal resto del sistema sociosanitario ed ha distolto l’attenzione dal fatto che, in questi anni, è stato l’uso di sostanze lecite come alcol e tabacco a creare i maggiori danni.

Dal punto di vista della tutela della salute, questo è stato errore. Ciononostante il sistema di intervento è, sino ad ora, riuscito con successo ad arginare disastrosi effetti dell’uso di droghe illecite che si vedono in altri Paesi, ma ha avuto troppi limiti nella capacità di intervenire precocemente per ridurre le patologie connesse con l’uso di sostanze illecite, e soprattutto di quelle lecite. Probabilmente ha ragione chi, come Garattini, sostiene che ogni forma di prevenzione, come per altri ambiti della medicina,  “è in conflitto di interessi col mercato” e, questo, non aiuta.

Concludendo, chi ha considerato la Conferenza Nazionale come una iniziativa un po’ confusa, di cui non si è capita la valenza ed il reale effetto, ha ragione. Ma non poteva essere che così. Chi ha lavorato per realizzare la Conferenza o nei tavoli di lavoro, ne ha, probabilmente, riportato elementi importanti di arricchimento personale e professionale ma, se davvero si dovesse lavorare per una revisione della legislazione, il significato del Dipartimento Nazionale (come Organo della Presidenza del Consiglio) e della Conferenza Nazionale, andrebbero profondamente ripensati e trasformati. Altrimenti, ogni prossima Conferenza, ammesso che sia convocata, sarà molto simile a questa.

Non basterà, per consolarsi, dire, come dicono i milanesi,  “Piutost che nient, l’è mei piutost”, per significare che, un qualcosa, è comunque meglio di niente.

Riccardo C. Gatti