La dipendenza non è una patologia “come un’altra”. D’altra parte, nessuna patologia è come un’altra ed anche la medesima patologia può impattare in modo differente, sulla vita di persone diverse. Quando chi lavora nel settore della cura e del prendersi cura, cerca di formulare progetti ed azioni per intervenire precocemente su chi usa droghe, lo fa perché è perfettamente cognito che la dipendenza patologica, una volta che si è instaurata, difficilmente ha un impatto lieve, non solo sulla vita di chi ne è affetto ma anche su quella di chi lo circonda.

È vero che non ha senso parlare genericamente di dipendenza: le persone sono diverse tra loro e le droghe non sono tutte uguali, ma è anche vero che l’impatto della dipendenza rende queste persone simili, almeno per un aspetto. È come se tutti i loro progetti di vita, si fermassero. C’è un prima ed un dopo sconcertante, nelle loro storie, che, tra l’altro, non riguarda solo la dipendenza da sostanze ma anche quelle comportamentali. Detto così, il tutto potrebbe sembrare banale. Basterebbe darsi da fare e riprendersi la vita. Vero, se non fosse che, in presenza di una dipendenza patologica, manca l’energia per riuscire a farlo. Attenzione, è l’energia a mancare, non la volontà. È come se le persone fossero risucchiate da un magnete estremamente potente, attorno all’oggetto della dipendenza che, forse, non è nemmeno qualcosa di specifico, quanto, piuttosto, proprio questa generale progressiva incapacità di pensarsi al di fuori da ciò che blocca nella patologia.

Una serie di ragioni storiche, legislative e culturali ci hanno portato a legare il concetto di dipendenza patologica a quello di tossicodipendenza, la tossicodipendenza all’uso di droghe illecite e l’uso di droghe illecite, alla devianza ed alla cronicità. In realtà si tratta solo di un tentativo, per altro abbastanza fallimentare, perché pieno di contraddizioni, di individuare un nemico esterno, verso cui concentrare la nostra attenzione: “la droga”. Questo senza pensare che, forse, il nemico è interno a noi, tanto è vero che, una volta dichiarata “guerra alla droga”, si finisce spesso per fare guerra alle persone, raramente con buoni risultati rispetto agli obiettivi che si volevano raggiungere. Oggi, in un contesto esperienziale più evoluto, dopo aver codificato ciò che è dipendenza nell’ambito delle malattie mentali, chi si occupa di cura delle dipendenze, cerca di intervenire precocemente su chi usa sostanze o ha comportamenti potenzialmente additivi, ma difficilmente ci riesce.

La ragione di questa difficoltà, non è sufficientemente esplorata, altrimenti l’approccio sarebbe differente. Detto in parole semplici, per quale ragione una persona che inizia ad usare droghe e ne ricava sempre piacere e, spesso, divertimento e potenziamento di prestazioni (in stimolo o in sedazione), dovrebbe rivolgersi ad un Servizio di cura, magari dell’ambito psichiatrico, considerandosi malato, quando non lo è?  Già, perché chi usa droghe (ed anche chi abbraccia comportamenti potenzialmente additivi, come il gioco d’azzardo) non è una persona forse capace di intendere, ma non di volere, come qualcuno pensa, ma un soggetto che, nel pieno possesso delle sue facoltà, cerca il piacere o, comunque, l’alterazione, ottenendo effetti che lo soddisfano o, almeno, lo fanno stare bene o meglio. Dire che, tutto ciò, è già patologico in partenza e che, una persona “sana”, non dovrebbe ricavare soddisfazione da piaceri artificiali, dalla alterazione (includendo tutto ciò che la può dare), è una sciocchezza che non tiene conto della realtà.

È quindi molto difficile che servizi che hanno una base clinica, anche molto connotata, a partire dal nome (Servizi Dipendenze – Ser.D.) possano intervenire su persone che non hanno una patologia esattamente come non è affatto “usuale”, che persone sane si rivolgano direttamente ad un oncologo, per prevenire un cancro che non hanno.

Questo non significa che non possano essere strutturate azioni di approccio preventivo, così come avviene per le patologie più gravi, ma per fare ciò è necessario un percorso che è ancora da strutturare in gran parte e che non può essere sviluppato isolatamente dalle Unità di Offerta che si occupano di dipendenze. È un percorso che, almeno per la prevenzione di alcune malattie gravi è stato fatto e detto così, non pare difficile. Può sembrare solo un problema di risorse disponibili per poterlo fare. In realtà non è così. Il cambiamento deve essere culturale, prima ancora che operativo. Ciò da cui parte l’intervento di settore nasce da concetti stigmatizzanti e da assetti “speciali” che, almeno per quanto riguarda il curare ed il prendersi cura, andrebbero superati. I nostri Servizi Dipendenze, ad esempio sono servizi “maturi”, che agiscono in base alle migliori conoscenze scientifiche, ma assieme alle Comunità Terapeutiche, sembrano costruiti apposta per togliere il problema che affrontano, non solo alla società, ma anche al resto del sistema sanitario, sociosanitario e, probabilmente, educativo. Insomma, nascono per “portare fuori e contenere” un problema e per costruire azioni di “contrasto” a fenomeni che si ritengono “devianti”. So bene che, poi, chi ci ha lavorato in questi anni, ha costruito qualcosa di differente, più adatto anche ai bisogni delle persone ma la collocazione ideale di questa offerta è sempre la stessa. È molto simile a ciò che si costruisce per contenere epidemie per cui le cure sono incerte. Lo stesso concetto del “mandare in comunità” non è molto differente dall’antico “mandare in sanatorio” le persone che erano affette da TBC. Ne uscivano quando erano sanate. Non prima.

Il cambiamento deve essere culturale, prima ancora che operativo. Per capirlo basta pensare al nostro atteggiamento, nel momento in cui una persona condivide con noi il piacere di bere buon vino, oppure ci dichiara di essere un alcolista.  La prima posizione, spesso, è socializzante, la seconda è senz’altro divisiva. Per le sostanze illecite, soprattutto per alcune di queste, la posizione divisiva di diffidenza, nasce ancor prima: alla semplice dichiarazione del consumo. Chi usa droghe illecite è inaffidabile di per sé, anche se non è dipendente. E se la malattia, in generale, è comunque considerata anche con “pietà” e comprensione, la malattia eventualmente derivata dall’uso di droghe o da comportamenti additivi, proprio perché legata concettualmente al piacere, all’alterazione ed alla devianza, è considerata una colpa e, chi la contrae, una persona debole ed inadeguata o, anche “insana di mente”, nella accezione peggiore del termine.

Se, quindi, si vuole superare questa situazione e riuscire ad intervenire precocemente, sono necessari cambiamenti importanti che è necessario pensare, prima ancora che agire. Senz’altro costruire le condizioni in cui si possa parlare dei propri comportamenti e delle proprie azioni, anche in ambito educativo, sanitario e sociosanitario, senza esserne penalizzati, dovrebbe essere il primo passo.

Ma siamo ancora distanti da tutto ciò. Probabilmente è per un “meccanismo di difesa sociale” che, per lungo tempo ha avuto un significato ed una utilità, ma temo che nella società contemporanea, incominci a dimostrare molti limiti. Non sono poche le persone che iniziano a chiedersi, se non provochi più danni che vantaggi.

Nel frattempo è ragionevole pensare che l’individuazione dei primi segni di patologia, conseguenti all’uso di sostanze o a comportamenti potenzialmente additivi, non sia appannaggio solo dei servizi specializzati, ma diventi una prassi ordinaria (non semplicemente una serie di azioni progettuali più o meno riuscite) dei Sistemi educativi e di quelli Sanitari e Socio-sanitari. Ne deriva, la necessità che tutti gli interlocutori sappiano come comportarsi di conseguenza, in “rete diffusa”, in modo coerente e con regole appropriate.

Se l’individuazione precoce di una patologia diventerà, però, il modo di applicare altrettanto precocemente, stigma, sanzioni, e limitazioni … è ovvio che il tentativo di operare per tutelare la salute delle persone fallirà, diventerà tardivo. Si moltiplicherà un danno per tutti, dal punto di vista individuale, economico e sociale.

Riccardo C. Gatti

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