L’attuale Sistema di intervento sulle Dipendenze ha una Storia. Nasce dopo gli anni ‘80 con la confluenza, nei Nuclei Operativi Tossicodipendenze (N.O.T. in Lombardia ma, altrove, con altri nomi), dell’esperienza dei Centri Medici e di Assistenza Sociale (CMAS) e dei Presidi di Diagnosi e Cura (gergalmente identificati come Centri Metadonici), per formare Servizi erogativi in ogni Unità Sanitaria Locale. Parallelamente ai N.O.T., già esistevano anche sedi specifiche per il trattamento di problemi alcologici: i Nuclei Operativi Alcologia (N.O.A.) e, in pochi luoghi, Sedi indirizzate alla attività penitenziaria, per esempio, a Milano nel Carcere di San Vittore.

I Centri Medici e di Assistenza Sociale erano nati ai sensi della Legge 685 del 1975 che, all’articolo 90, esplicitava un concetto, per quei tempi, particolarmente importante dicendo: “La cura e la riabilitazione dei soggetti che fanno uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope sono affidate ai normali presidi ospedalieri, ambulatoriali, medici e sociali localizzati nella regione, con esclusione degli ospedali psichiatrici”. Tenendo conto che il Servizio Sanitario Nazionale, così come lo conosciamo oggi, non esisteva ancora, sebbene fosse previsto, era fondamentale sancire che fossero i “normali presidi” che prendevano in cura tutti i cittadini, ad occuparsi anche dell’uso non terapeutico delle sostanze psicotrope evitando, per legge, una logica contenitiva manicomiale che, diversamente, non poteva essere esclusa. In realtà già da quei tempi e sino ai nostri giorni, esisteranno correnti di pensiero fortemente favorevoli ad una non “medicalizzazione” e, ancor più, a una non “psichiatrizzazione” dell’intervento sulle tossicodipendenze.

Come spesso accade nel nostro Paese, nel frattempo, si faceva di necessità virtù. Non esistendo altri servizi specializzati era inevitabile che, tolto l’ospedale psichiatrico, i “normali presidi” si facessero carico del problema. Poiché la questione era comunque complessa, veniva anche stabilito che le regioni dovessero “operare per il reinserimento sociale di coloro che, essendo dediti all’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope”, avessero bisogno di assistenza sociale a scopo di prevenzione o di riabilitazione e, appunto, che venissero istituiti “uno o più Centri medici e di assistenza sociale (CMAS), costituiti secondo le necessità locali”.

È interessante analizzare le loro finalità:

  • “fornire l’ausilio specialistico occorrente ai luoghi di cura, ai centri ospedalieri e sanitari locali ed ai singoli medici”
  • “determinare le più idonee terapie di disintossicazione, operando i necessari interventi e controlli sull’attività dei presidi sanitari”
  • “attuare ogni opportuna iniziativa idonea al recupero sociale degli assistiti, interessando in via prioritaria, quando è possibile, la famiglia”

Tutto ciò all’interno, comunque, di una strategia comprendente anche non meglio definiti “organi di prevenzione e di intervento curativo, riabilitativo e di assistenza sociale, aventi finalità più ampie e ricomprendenti la prevenzione e la cura dell’alcoolismo, l’educazione sanitaria e sociale contro altre intossicazioni voluttuarie e gli strumenti per prevenire le forme di devianza che richiedono analoghi modi d’intervento”.

Mi è parso utile citare questi stralci dell’Art. 90 della legge 685/75 perché riportano alcuni principi che, pur essendo attuali anche ai giorni nostri, furono, nel tempo, applicati solo in parte. Solo il DPR 309/90, quindici anni dopo, a Servizio Sanitario Nazionale avviato, consoliderà a livello normativo ed in ambito nazionale ciò che, nel frattempo, si era, almeno parzialmente, consolidato localmente ma, come vedremo, cambiandone la mission.

Infatti, se leggiamo il Titolo X del DPR 309/90 “ATTRIBUZIONI REGIONALI, PROVINCIALI E LOCALI. SERVIZI PER LE TOSSICODIPENDENZE” all’articolo 113, scopriamo un quadro generale differente da quello previsto dalla legge del ’75. Il tutto riguarda le competenze delle regioni e delle province autonome che “disciplinano l’attività di prevenzione, cura e riabilitazione delle tossicodipendenze” secondo alcuni indirizzi fondamentali che determinano come le attività di prevenzione e intervento “contro l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope” siano esercitate da servizi pubblici e strutture private accreditate in possesso di specifici requisiti strutturali, tecnologici, organizzativi e funzionali. Ho evidenziato la parola “contro” non a caso.

Il legislatore sembra particolarmente preoccupato di garantire parità di accesso ai servizi ed alle prestazioni erogate dai servizi pubblici e dalle strutture private accreditate (a quei tempi quasi esclusivamente strutture residenziali); nel frattempo specifica che ai “servizi e alle strutture autorizzate, pubbliche e private” accreditate, spettano le funzioni di:

  • analisi delle condizioni cliniche, socio-sanitarie e psicologiche del tossicodipendente anche nei rapporti con la famiglia con anche l’effettuazione di controlli clinici e di laboratorio (presso laboratori autorizzati);
  • individuazione del programma farmacologico o delle terapie di disintossicazione e diagnosi delle patologie in atto, con particolare riguardo alla individuazione precoce di quelle correlate allo stato di tossicodipendenza;
  • elaborazione, attuazione e verifica di un programma terapeutico e socio-riabilitativo, nel rispetto della libertà di scelta del luogo di trattamento di ogni singolo utente;
  • progettazione ed esecuzione in forma diretta o indiretta di interventi di informazione e prevenzione.

Anche a chi non sia particolarmente amante della analisi della lettura dei testi di legge non sfuggirà che, nell’ambito delle norme che definiscono le prestazioni di cura proprie del Sistema Sanitario, si verificano, in quindici anni, cambiamenti sostanziali. Si passa, infatti, da una situazione in cui la norma prevede che “La cura e la riabilitazione dei soggetti che fanno uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope sono affidate ai normali presidi ospedalieri, ambulatoriali, medici e sociali” e che i Centri medici e di assistenza sociale forniscano “ausilio specialistico occorrente ai luoghi di cura, ai centri ospedalieri e sanitari locali ed ai singoli medici” ad una situazione in cui è previsto che le attività di prevenzione e cura siano esercitate da specifiche strutture accreditate pubbliche e private. Sono, quindi, queste strutture che diventano titolari degli interventi “contro l’uso di sostanze stupefacenti o psicotrope”: non più i normali presidi ospedalieri, ambulatoriali, medici e sociali presenti in un determinato territorio.

Cosa ha determinato questo cambiamento?

La lettura più semplice del cambiamento è che, esistendo nel 1990 presidi specializzati, inesistenti nel 1975, il livello legislativo si sia mosso di conseguenza, riconoscendo al nuovo sistema una titolarità che, precedentemente non poteva essere assegnata. In realtà l’analisi potrebbe essere più complessa.

La legge del 1975 era stata pensata in una era molto diversa dall’attuale. La diffusione “epidemica” dei fenomeni di uso di droghe, nel ’75, era un concetto ancora distante dall’esperienza di un Paese in grande trasformazione e da poco uscito da una situazione di boom economico. L’alcolismo era una piaga ben nota, il fumo di tabacco era molto diffuso ma le droghe, nel sentimento comune, erano considerate più come qualcosa che “transitava” nel Paese, piuttosto che una fonte “epidemica” di patologia e di devianza.

Si aveva sentore che la diffusione dell’eroina potesse diventare un problema grave. Alcuni ne intuivano la pericolosità. Pasolini ad esempio analizzava già la diffusione di droga come una tragedia legata al “desiderio di morte”, intrinseco ad una società che doveva colmare un vuoto incolmabile: “La droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura” (La droga: una vera tragedia italiana, Corriere della Sera, 24 luglio, 1975). Secondo Pasolini si era aperto lo spazio perché l’uso di droga diventasse un fenomeno di massa e, infatti, dopo il 75 la situazione relativa alla diffusione di eroina continuò a peggiorare. La visione pasoliniana della droga come desiderio di morte e della overdose come suicidio, influenzò per anni la spiegazione psico-sociologica dei fenomeni di dipendenza, con particolare riferimento a quelli legati all’eroina. I concetti di dipendenza patologica, intesa come malattia del cervello, cronica e recidivante erano ancora distanti. Si incominciava a valutare la “motivazione” dei soggetti al cambiamento di vita come presupposto fondamentale per il trattamento. Le stesse comunità terapeutiche istituivano fasi preliminari di “valutazione della motivazione” che potevano o meno determinare l’accesso al percorso comunitario.

Ma già nel ’75 la parte della politica più attenta al quadro internazionale era influenzata dalla “guerra alla droga” dichiarata da Nixon nel 1971. “America’s public enemy number one in the United States is drug abuse. In order to fight and defeat this enemy, it is necessary to wage a new, all-out offensive”[1]. Sempre nello stesso pronunciamento Nixon individuava necessità di risorse economiche sia per le azioni repressive che di cura: “If we are going to have a successful offensive, we need more money. Consequently, I am asking the Congress for $155 million in new funds, which will bring the total amount this year in the budget for drug abuse, both in enforcement and treatment, to over $350 million”. Nel 1973 veniva costituita la Drug Enforcement Administration: una forza di intervento dedicata che tuttora interviene non solo negli Stati Uniti ma anche in supporto a Paesi “alleati”. Per anni e sino a tempi relativamente recenti esisterà, ad esempio, una attività della DEA anche a Milano.

La legge del ‘75 coglieva l’importanza dell’azione preventiva e terapeutica che era stato uno dei punti qualificanti (sebbene dimenticato) dell’orientamento di Nixon. Negli anni che seguirono, tuttavia, mentre migliorava l’organizzazione e la distribuzione territoriale dei Servizi specificamente dedicati alla cura delle tossico–alcol dipendenze sul territorio, il Sistema Sanitario, nel suo complesso, si ritraeva progressivamente dall’impegno su questo tipo di interventi.

Infatti, quando gli applicativi della legge 685/75 , i Decreti del Ministero della sanità del 6 giugno e del 4 agosto ’78 (Decreti Anselmi) ed i successivi del 7 agosto e del e del 10 ottobre 1980 (Decreti Aniasi), indicarono il metadone (e lo sciroppo di morfina in una prima fase sperimentale durata sino al 1985) come farmaci sostitutivi per il trattamento della dipendenza da eroina, venne definito che il medico curante avesse la possibilità di partecipare al trattamento, ma solo come attività integrativa e di supporto[2]. In tempi successivi e più recenti la possibilità prescrittiva dei medici verrà ampliata ma sempre collegandola al piano terapeutico previsto dai Servizi Dipendenze.

Negli anni ’80, con la nascita delle Unità Sanitarie Locali, in tempi differenti da Regione a Regione, venivano istituiti Servizi territoriali per la cura delle tossico–alcol dipendenze che riassumevano, come già detto, l’esperienza multidisciplinare dei CMAS con quella, più medica, dei Presidi (metadonici) costituiti ai sensi dei Decreti Anselmi ed Aniasi. Detto così potrebbe sembrare il puro esito di atti amministrativi. In realtà andavano a fondersi culture operative sostanzialmente differenti. Non dimentichiamo che si dovevano unire operativamente interpretazioni di fenomeni che avevano a che fare col desiderio di morte e visioni puramente psicologiche e sociologiche della tossicodipendenza con altre che partivano da presupposti di tipo medico-biologico.

Nascevano così i progenitori degli attuali SERT (Servizi Tossicodipendenze). La loro particolarità? Fornire trattamenti multidisciplinari integrati ed anche “trattamenti metadonici”. La distinzione è rimarcata in quanto, pur avendo i trattamenti metadonici anche una funzione sociale, l’idea che la terapia con agonisti, tra cui il metadone, fosse semplicemente basata sul rimpiazzare un oppiaceo illecito con uno lecito rimase diffusa sino ai giorni nostri, non permettendo a molti di comprendere che la stabilizzazione della situazione patologica ed il miglioramento della vita sociale dei pazienti sono obiettivi del trattamento di qualunque patologia grave. L’uso di metadone o buprenorfina a medio – lungo termine, infatti, elimina il desiderio compulsivo per gli oppiacei, ferma gli eventuali sintomi dell’astinenza, blocca l’euforia indotta dagli oppiacei e stabilizza, regolarizzandolo, il disfunzionamento dei meccanismi neuronali causati dalla dipendenza.

Soprattutto negli anni ’80, però, in un dibattito mai concluso, le diverse tipologie di trattamento venivano considerate, da molti, quasi in contrapposizione: il metadone vs. la comunità, oppure, il trattamento psicologico vs. il trattamento farmacologico, la “disintossicazione” vs. il trattamento sostitutivo ecc. Se, quindi, le “parole d’ordine” di tipo politico ed organizzativo erano riferite ad una massima integrazione interprofessionale e tra pubblico e privato, la realtà era, in molti casi, differente e ricca di contrasti. Tra fiaccolate per le strade dei movimenti antidroga e le prese di posizione delle “madri coraggio”, intanto, appariva tutta la realtà di un fenomeno epidemico che sembrava incontenibile. I toni retorici tipici della “guerra” erano chiari. Meno chiaro era chi fosse il nemico che veniva impersonato genericamente dalla droga. Il drogato era però stigmatizzato. Più che una vittima era considerato un colpevole deviante; più che un malato da curare era ritenuto una persona da salvare, attraverso un percorso di riabilitazione. Infatti le comunità, seppur dette “terapeutiche”, raramente si avvalevano di personale clinico. I loro fondatori diventati molto popolari perché, appunto, proponevano vie di salvezza, impersonavano gli eroi di questa guerra del bene contro il male. La situazione di stigmatizzazione del tossicodipendente peggiorò negli anni ’80 conseguentemente alla individuazione della Sindrome da Immunodeficienza acquisita. L’AIDS divenne un “media hype”: un tema in grado di suscitare trattazioni particolarmente intense da parte dei media. L’epidemia “del secolo” veniva letta in toni apocalittici. Le prime trattazioni parlavano di “categorie a rischio” e, a quei tempi, il rischio veniva interpretato sia in relazione alla possibilità di contrarre l’infezione, ad esempio con lo scambio di siringhe infette, ma, anche e soprattutto di trasmettere l’infezione a chi non era infetto. Insomma il “media hype” trasformava minoranze come i gay o i tossicodipendenti, perché ritenuti categorie a rischio, in potenziali untori. Parlando di AIDS si parlava contemporaneamente di “morenti” ma anche di potenziali “assassini”, in quanto contagiosi.  Il tutto condito da leggende urbane di vario genere (es. la pianta detta tronchetto della felicità che poteva contenere ragnetti o insetti non meglio precisati che trasmettevano la malattia) che contribuivano ad alimentare una sorta di terrore irrazionale per un tema che doveva, invece, essere trattato con razionalità.

Contemporaneamente negli anni ’80 il Presidente USA Ronald Reagan dava ancor maggior vigore alle politiche di guerra alla droga promosse da Nixon. Nel 1984, sua moglie Nancy Reagan lanciava la campagna di Prevenzione “Just Say No” ma, intanto, negli USA, aumentavano le carcerazioni conseguenti a crimini non violenti, collegati alla droga. Vennero sollevate molte critiche alla Presidenza, notando che le carcerazioni riguardavano soprattutto la popolazione di colore; molto più di quella bianca[3].

In Italia, i Servizi tossicodipendenze, con la nascita delle Unità Sanitarie Locali, assieme ai Consultori ed ai Centri Psico Sociali, e poco altro, rimanevano a cavallo di una sorta di visione utopica che vedeva la salute come un diritto e la sua tutela esercitata in Servizi territoriali di zona, molto vicini alle persone ed esterni alle logiche ed al “potere” degli Ospedali. Tuttavia, mentre un vero è proprio “sistema salute territoriale” stentava a crescere, gli Ospedali, gradualmente, cercavano di smarcarsi da un impegno che, per quanto riguardava le tossicodipendenze non sentivano come proprio. Molti medici di famiglia distinguevano tra gli alcolisti, la cui cura ritenevano sicuramente di pertinenza medica, e i tossicodipendenti da droghe, visti come soggetti da inserire in percorsi di comunità (sondaggi di opinione condotti dalla USL 75/6 di Milano negli anni ‘90). Esperienze come quella della Lombardia che prevedeva la possibilità di ricovero per tossicodipendenti in posti dedicati, nei reparti di medicina generale, con un Centralino regionale che ne permetteva l’utilizzo per la disassuefazione, gradualmente si esaurirono. I reparti non erano specializzati, i setting non erano adeguati e, quindi, gli esiti dei trattamenti erano inevitabilmente dubbi. Fu così facile dire che i ricoveri in ospedale non erano utili perché si creava una sorta di “revolving door” tra la disassuefazione e la strada che aveva una sua intrinseca pericolosità. I tossicodipendenti erano generalmente persone giovani e, a loro modo, attive. Gli spazi ed i tempi dei reparti di medicina non erano adatti per il trattamento della loro patologia. Anche altre attività, gestite a livello ospedaliero e connesse alla pregressa attività dei Presidi di diagnosi e cura vennero gradualmente chiuse. A Milano l’ultimo Presidio per la diagnosi e cura delle tossicodipendenze, operante dentro una struttura Ospedaliera, chiuse, nel 1990. Doveva lasciare spazio all’organizzazione di emergenza – urgenza connessa con i Campionati del Mondo di Calcio “Italia ‘90”. L’Ospedale era il più vicino allo Stadio. Per l’intervento sulle tossicodipendenze si entrava in una nuova era.

La nuova era venne segnata dalla legge 162/90 e dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 – Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza. La Guerra alla droga, a livello internazionale, era nel suo pieno e la legge italiana ribadiva l’uso di droghe come fatto illecito fino al punto di affermare che, in determinate condizioni, poteva anche essere sottoposto a detenzione chi non accettava di curarsi. In realtà l’intento non era puramente repressivo e la carcerazione non era l’obiettivo primario, ma certamente l’orientamento era quello di voler costruire una situazione di controllo attorno all’uso di droga tale da costringere il tossicodipendente a curarsi o ad entrare in una Comunità. Non dimentichiamo che il tossicodipendente (a quei tempi soprattutto eroinomane) non solo veniva visto come un deviante e, potenzialmente, un criminale ma anche come il possibile portatore “infettivo” di una malattia mortale. L’esercente la professione medica che visitava o assisteva chi facesse uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope, inoltre, doveva farne segnalazione nominativa al servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio. Se si ricorda il punto di partenza di questo capitolo, si tratta di una posizione molto differente da quella in cui i Centri specializzati nascevano per “fornire l’ausilio specialistico occorrente ai luoghi di cura, ai centri ospedalieri e sanitari locali ed ai singoli medici”. Gli intendimenti legislativi più repressivi furono abrogati in seguito ad una iniziativa referendaria del 1993 (iniziativa annunciata nella “Gazzetta Ufficiale” del 28 settembre 1991 n. 228) ma, in ogni caso, la posizione dei Servizi Tossicodipendenze, sebbene finalmente definita da una unica denominazione nazionale e con standard emanati dal Ministero della Sanità, diventò più ambigua. L’ambiguità riguarda tuttora la funzione posta trasversalmente tra cura e controllo sociale ma anche il ruolo interno al Servizio Sanitario, rimasto contemporaneamente di base e specialistico.

Lo stesso uso del metadone, il trattamento farmacologico oggi ritenuto fondamentale per la dipendenza da eroina, rimase, sin dall’inizio, di controversa interpretazione. Nel suo libro “La testa piena di droga”[4] lo Psichiatra Vittorino Andreoli, ancora nel 2008 ad esempio, riportava “era chiaro che i danni del metadone erano del tutto simili a quelli dell’eroina e non accettavo che ci fosse una droga di Stato perché la si otteneva all’interno del Servizio sanitario nazionale”. E, ancora, riferendo di una perizia fatta per un Magistrato, il Dott. Ambrosini di Torino dice “La conclusione fu che non c’erano dati scientifici per poterlo definire una sostanza curativa perché semplicemente una molecola che aveva effetti identici a quelli dell’eroina (…)”. Andreoli si riferisce al 1979, quando era consulente del Ministro Tina Anselmi. Sulla base di questo tipo di considerazioni il metadone venne di fatto vietato per la cura delle tossicodipendenze. Andreoli parla di strumentalizzazioni nell’interpretazione di una iniziativa che, in realtà, voleva impedire l’uso non terapeutico del metadone. Vi furono reazioni di violenta protesta anche da parte dei tossicodipendenti che si trovarono spinti a comportamenti criminali per comprare eroina. Secondo Andreoli “la stupidità ebbe il sopravvento” si dovette così rimediare con un secondo decreto, il 10 ottobre 1980, in cui “invece di proibire il metadone si stabilivano le regole del suo uso” che erano rigide e che dovevano permetterne l’uso solo per situazioni croniche di lunga data e come parte di un intervento più complesso. Un dibattito, quello sul metadone, che non si è mai sopito e che continuerà sino ai nostri giorni, spesso confondendosi con le dispute tra proibizionisti ed antiproibizionisti. Ma i Servizi per le dipendenze, a lungo identificati con gli erogatori di metadone, perché curavano principalmente eroinomani, ne furono coinvolti in modo non certo positivo. Lo stigma che aveva segnato i tossicodipendenti come devianti e criminali, prima e come untori e propagatori di HIV, dopo, colpiva anche i Servizi Dipendenze. Probabilmente l’ampio utilizzo del metadone per gli eroinomani venne favorito negli anni, più che da evidenze scientifiche che pure esistevano, proprio dalla paura per la diffusione dell’HIV. Gli eroinomani negli anni ’80 assumevano la droga soprattutto per via iniettiva e lo scambio della siringa era usuale; il metadone sciroppo si assumeva per via orale e questo lo rendeva più accettabile. Insomma, anche agli occhi dei più critici, non era più considerabile un equivalente dell’eroina. La letteratura scientifica, tuttavia, accompagnava queste considerazioni dimostrando come il trattamento con farmaci sostitutivi per la dipendenza da oppiacei fosse associato a riduzioni statisticamente significative dell’uso di eroina, della sua frequenza di assunzione e dello scambio di siringhe e che le persone in trattamento avevano inoltre un minor numero di partner sessuali e si prostituivano meno[5].  La riduzione dei comportamenti a rischio inoltre rendeva, tra le persone trattate, più basso il tasso di sieroconversione.  Bisogna tuttavia anche dire che quando si osservano le conclusioni degli articoli della letteratura scientifica raccolta negli anni ’80 e negli anni ’90 qualche interrogativo rimane, proprio in relazione alla cura della dipendenza da eroina  e, forse, riporta agli esordi della attività curativa degli eroinomani quando il ricorso al metadone ed il suo utilizzo era, probabilmente, più prudente di oggi, spesso legato ad interventi multidisciplinari e meno basato sulla sola efficacia del farmaco. Osserviamo ad esempio le conclusioni di una revisione Cochrane sul trattamento metadonico pubblicata nel luglio 2009[6]: “Methadone is an effective maintenance therapy intervention for the treatment of heroin dependence as it retains patients in treatment and decreases heroin use better than treatments that do not utilize opioid replacement therapy. It does not show a statistically significant superior effect on criminal activity or mortality”. È un efficace intervento per la dipendenza da eroina perché ritiene i pazienti in trattamento e diminuisce l’uso di eroina meglio dei trattamenti che non utilizzano il trattamento sostitutivo.

Nuovi farmaci agonisti degli oppiacei sono entrati, nel frattempo, nell’armamentario terapeutico dei Servizi Dipendenze. Hanno vantaggi e svantaggi rispetto al metadone ma, come ad esempio la Buprenorfina, possono essere una alternativa efficace ma non più efficace del metadone stesso: “Buprenorphine is an effective intervention for use in the maintenance treatment of heroin dependence, but it is not more effective than methadone at adequate dosages”[7]. Preparazioni di Buprenorfina e Naloxone hanno dimostrato, in alcuni studi, ma non in altri, miglioramenti della vita sociale e di risposta alla terapia.[8] Altri farmaci di questo tipo stanno arrivando sul mercato ma, probabilmente potranno essere più o meno maneggevoli, più o meno adatti ad una particolare tipologia di utenza ma difficilmente avranno profili di efficacia molto più ampi. Oggi ci si potrebbe chiedere, quindi, se l’obiettivo di ridurre significativamente l’uso di eroina in un eroinomane, sia il principale obiettivo realisticamente percorribile in un trattamento ambulatoriale oppure se un atteggiamento più “ambizioso” potrebbe produrre studi e ricerche finalizzati a generare metodologie e strumenti farmacologici atti a raggiungere risultati migliori, almeno per una parte importante di pazienti.

Il SERT degli anni ’90 diventò così, contemporaneamente, un luogo di cura ma anche la parte di un contenitore con tre lati: gli organi di controllo, Polizia, Magistratura, Carcere e Prefettura su un lato; Comunità terapeutiche, su un altro; e, appunto, il SERT. Uno strumento importante di questo contenimento fu indubbiamente il metadone. La storia di molti pazienti di quegli anni ne è la prova. La spinta verso l’ingresso nel contenitore era forte, talvolta inevitabilmente coercitiva; gli strumenti di uscita, molto incerti. Il farmaco principale usato per il trattamento della tipologia principale di utenza (gli eroinomani) era molto “captante” ed uno dei pregi vantati del suo utilizzo era proprio la ritenzione in trattamento. Proprio l’indice di ritenzione, infatti, è tuttora uno degli indicatori di risultato più utilizzato per la valutazione dell’efficacia dei trattamenti nel campo della tossicodipendenza. Gli stessi flussi di dati istituzionali erano, ed ancora oggi sono, più interessati al numero delle persone prese in carico, piuttosto che all’esito reale del percorso.

Anche al legislatore probabilmente non sfuggiva l’ambiguità del sistema messo in atto: evidenti funzioni orientate al controllo sociale avrebbero potuto ostacolare l’accessibilità spontanea dei pazienti. Nacquero così norme, come quella dell’articolo 29 della Legge 162/90, per prescrivere che i pazienti, a loro richiesta, potessero beneficiare dell’anonimato nei rapporti con i servizi, i presidi e le strutture delle aziende unità sanitarie locali, e con le strutture private autorizzate nonché con i medici, gli assistenti sociali e tutto il personale addetto o dipendente. Il tutto fino a prevedere che, in caso di richiesta di anonimato, la scheda sanitaria non contenesse le generalità né altri dati validi per l’identificazione del paziente. Un proposito interessante ma difficile da gestire con gli eroinomani e cioè con la maggior parte dei pazienti di allora, visto che la compilazione dei registri degli stupefacenti, utilizzati per il metadone, prima, e poi anche per gli altri farmaci agonisti, prevedono ancor oggi l’inserimento delle generalità del paziente a cui il farmaco è prescritto e le norme (meno restrittive di un tempo) per l’utilizzo dei farmaci oppiacei per la terapia del dolore, non riguardano i farmaci oppiacei, quando prescritti per il trattamento delle tossicodipendenze. Prova evidente che, a ragione o a torto, i tossicodipendenti, ancor oggi, non sono considerati pazienti come gli altri.

Il tutto, comunque, aveva a che fare esclusivamente con i pazienti “volontari” visto che permaneva l’obbligo di segnalare all’autorità competente tutte le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma terapeutico alternativo alla detenzione, a sanzioni amministrative o ad esecuzione di pene detentive. In questo caso il medico o, comunque l’operatore del Servizio Sanitario diventavano i segnalatori di “tutte le violazioni” (il testo di legge non è più chiaro) commesse dalla persona sottoposta a programma terapeutico. Ognuno può avere le proprie opinioni in merito, ma penso che a nessuno sfugga come i rapporti terapeuta – paziente vengano completamente stravolti: per il tossicodipendente sottoposto a sanzione penali o amministrative il programma terapeutico rimane, in un certo senso, parte della sanzione stessa. Il terapeuta diventa un controllore. È un fatto che non si verifica per altre patologie e che, anche oggi, genera situazioni paradossali. Un soggetto con una grave forma di dipendenza da sostanze, infatti, è molto probabile che abbia difficoltà a rimanere astinente dalle stesse nelle fasi iniziali del trattamento ma la assunzione di droghe potrebbe essere considerata negativamente con conseguente revoca del programma alternativo alla detenzione. La stessa difficoltà non riguarda chi usa sostanze ma non ne è fortemente dipendente e che, quindi, è molto facilitato nel dimostrare adesione al programma.

L’ambiguità irrisolta dei SERT diventa ancor più evidente per quanto stabilito a proposito della definizione del programma terapeutico e socio-riabilitativo. Il servizio pubblico per le tossicodipendenze (…), compiuti i necessari accertamenti e sentito l’interessato, che può farsi assistere da un medico di fiducia autorizzato a presenziare anche agli accertamenti necessari, definiscono un programma terapeutico e socio-riabilitativo personalizzato (…) Nell’ambito dei programmi terapeutici che lo prevedono, possono adottare metodologie di disassuefazione, nonché trattamenti psico-sociali e farmacologici adeguati. Il servizio per le tossicodipendenze controlla l’attuazione del programma da parte del tossicodipendente.

Definire per legge che si può essere assistiti da un “medico di fiducia” già a priori, nel momento della definizione di un piano terapeutico, pone il SERT in una posizione particolare, quasi di possibile controparte. Normalmente quando ciascuno di noi si rivolge ad un centro di cura lo fa perché ha fiducia di quel centro e di chi vi opera. Il rapporto terapeuta – paziente, quindi appare “alterato” per definizione, e il controllo della attuazione del programma assume, di conseguenza, un significato completamente diverso dal normale controllo clinico di un percorso di cura.

Il sistema legislativo del Paese, dopo il referendum che spegneva definitivamente le parti più sanzionatorie e repressive della legge del giugno 90 detta Jervolino – Vassalli per il nome dei principali proponenti, cambierà ancora con una legge del 2006 (Fini – Giovanardi).  Parti del cambiamento verranno, poi, abrogate dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2014. Ogni cambiamento venne accompagnato da grandi dibattiti e prese di posizione da parte di schieramenti contrapposti ma ciò che non cambiava sostanzialmente era la posizione del tossicodipendente da droghe, visto comunque e sempre un po’ come malato e un po’ come deviante a cui proporre, con diversa gradazione di forza, un programma terapeutico. L’ambiguità della funzione dei SERT rimarrà viva: servizi apparentemente specialistici ma senza una specialità di riferimento; servizi di cura ma anche di controllo sociale, in presenza di azioni normative in grado di condizionare le scelte terapeutiche; riferimenti territoriali obbligatori (il SERT di residenza), costruiti ad hoc per circoscrivere geograficamente situazioni epidemiche che, almeno all’inizio, apparivano collegate a zone determinate. Ancor oggi, così, la possibilità di aprire un SERT in un determinato territorio, diversamente da qualunque altro servizio di cura, viene vista con ostilità da parte della popolazione. Si tratta di un atteggiamento molto simile a quello visto, ad esempio per gli inceneritori, le discariche ed altri tipi di impianti. Ritenuti genericamente utili, ma a condizione che siano collocati lontano: al di fuori del proprio quartiere o anche della propria città.

La nascita dei primi Nuclei Operativi Tossicodipendenze rappresentò un processo graduale che tuttavia non comportava, nella sua prima fase, la messa a regime di un vero e proprio “sistema di cura” quanto, piuttosto, di sedi operative con mission ed organizzazioni simili, inquadrate in Unità Sanitarie Locali differenti, successivamente denominate Unità Socio Sanitarie Locali e ridotte di numero. Solo nella seconda metà degli anni ’90, con la istituzione di Aziende Sanitarie Locali, più ampie territorialmente, i Servizi Erogativi incominciarono ad essere maggiormente organizzati in Sistemi coerenti, prodromi dei futuri Dipartimenti Dipendenze. A Milano, ad esempio, si passò da 20 USL, ciascuna con un Servizio, a 6 USSL e poi ad una unica ASL con una gestione prima funzionale e, poi dipartimentale gestionale con diverse Strutture Complesse e numerose sedi. Nei diversi territori del Paese l’organizzazione era, tuttavia, differente. In alcuni casi era mantenuta strettamente la competenza zonale di ciascuna sede operativa, in altri, come a Milano la barriera del confine di zona era superata permettendo di differenziare l’offerta sulla base di equipe specializzate, da una parte e, dall’altra, nel limite del possibile, di lasciar scegliere al cittadino il luogo o l’equipe di cura preferita. Nel frattempo, però, nuovi criteri “aziendalistici” avevano permeato i Servizi Sanitari, ormai regionalizzati. Fu in questa fase che lo “splendido isolamento” del Sistema di Intervento sulle Dipendenze raggiunse gradualmente il suo massimo vigore con il consolidamento, almeno in alcuni luoghi, dei Dipartimenti Dipendenze (in Dipartimento è la più alta forma organizzativa del Sistema Sanitario).  Il mandato relativo a prevenzione, terapia e riabilitazione avrebbe dovuto consolidarsi con il coordinamento e la direzione di Dipartimenti che prevedevano, sebbene in modo differente, la partecipazione di Pubblico e Privato (sociale). Fu una esperienza, tuttavia, non sempre realizzata in modo compiuto e diffuso. In molti casi si trattava di Dipartimenti senza “portafoglio” reale e, in Sistemi Socio-Sanitari sempre più Aziendalizzati, il fatto che le risorse fossero gestite altrove rendeva questa strutturazione intrinsecamente debole.

Intanto, mentre a livello legislativo il percorso sembrava annodarsi su sé stesso e, a livello culturale, non progrediva oltre i temi a suo tempo introdotti da Marco Pannella, a proposito della legalizzazione della cannabis, il mondo cambiava velocemente. Rispetto agli anni ‘70 con la droga inizialmente ritenuta un rischio relativo ed un problema limitato per poi diventare, con l’eroina, una emergenza nazionale, e rispetto agli anni ’80 dove si aggiunse il terrore per la diffusione dell’HIV; negli anni ’90 si capì che non esisteva “la droga” (intesa soprattutto come l’eroina) ma esistevano le droghe e diversi modi di consumarle e di farne uso. Drogarsi non tanto per agire in modo deviante o per estraniarsi dalla società, quanto per una sorta di doping della vita quotidiana, per comprimere o dilatare lo spazio/tempo e per compiere azioni usuali come lavorare, divertirsi e fare sesso o attività sportive. Insomma, indipendentemente dalle leggi e dai dibattiti politici che, poco per volta, diventavano sempre più logori e anacronistici, il mondo cambiava e cambiavano i Servizi Dipendenze. L’esperienza maturata poteva essere applicata e, mentre l’inizio era stato un po’ “ruspante”, gradualmente si costruivano a livello internazionale e locale, evidenze scientifiche, linee guida e capacità operative di buon livello. I SERT, figli di una ambiguità originaria di mandato, tra controllo sociale e intervento terapeutico, si muovevano più coerentemente con una società che vedeva sempre meno le droghe come una emergenza epocale ma, piuttosto, come uno dei fattori di rischio per la salute fisica e psichica. I Servizi di cura, gradualmente, si evolvevano, anche cambiando nome in SERD (da Servizi Tossicodipendenze a Servizi Dipendenze), a voler significare che si potevano occupare di Dipendenze Patologiche di vario tipo, anche non da sostanze. Un mercato delle droghe ormai molto ampio e variegato e l’attenzione per il gioco d’azzardo patologico facevano si che tutto ciò fosse possibile, anzi, dovuto e correlato ai Livelli Essenziali di Assistenza.

L’uscita da una logica dell’emergenza e di azione “contro la droga”, spesso somigliante ad una azione contro chi assumeva droghe (illecite), incominciava tuttavia a dimostrare evidenti limiti nelle strategie del Sistema Socio-Sanitario nel suo complesso.

Partiamo da alcuni dati. Se le malattie cardiovascolari rappresentano ancora la prima causa di morte e disabilità a livello globale, causando 17 milioni di casi per anno, solo l’uso pericoloso di alcol si stima uccida 3,3 milioni di persone (dato WHO), le droghe un minimo di 190.00 (dato UNODOC) e il tabacco provoca più di 7 milioni di morti l’anno, nel mondo (dato WHO) di cui circa di cui quasi 900.00 non fumatori esposti al fumo passivo. Quindi ciò che può provocare disturbi da uso di sostanze o dipendenza patologica uccide complessivamente più di 10 milioni di persone all’anno nel mondo. Con tutte le difficoltà che ci possono essere nel paragonare stime eseguite con metodi diversi, anche mettendo assieme l’esito di situazioni differenti, si tratta di un numero di morti annuo superiore a quello riferibile al cancro. Un numero che, ancora, non considera le conseguenze letali dell’abuso di farmaci, su cui esistono meno dati certi, pur essendo largamente diffuso nella popolazione. Probabilmente la “guerra alla droga”, intesa come droga illecita, ha oscurato per anni una visione più equilibrata rispetto al fenomeno complessivo, concentrando l’attenzione solo su alcuni aspetti che una visione più “clinica” sta riportando gradualmente alla luce.

Purtroppo si tratta di un affioramento molto lento della realtà, ancora troppo legato ad emergenze episodiche che improvvisamente squarciano il buio su alcuni fenomeni (mentre scrivo è ancora il turno del gioco d’azzardo patologico), ma irrimediabilmente ne oscurano altri, altrettanto importanti.

Ci si potrebbe chiedere se il tutto sia completamente casuale oppure se l’attenzione parziale ad alcuni fenomeni, e continuamente spostata da emergenze successive, abbia delle ragioni economiche. Attualmente esiste ancora un tempo molto lungo (anni!) tra la nascita graduale di una dipendenza patologica e l’intervento di cura. Il tutto è pienamente funzionale ad esigenze commerciali: sono le persone a rischio ed all’inizio di una patologia quelle che, probabilmente, rendono di più ai mercati leciti e illeciti (droghe, alcol, gioco ecc.) perché consumano e spendono di più. Nel gennaio 2016 The Guardian ha pubblicato un articolo dal titolo “Problem drinkers account for most of alcohol industry’s” dove si sostiene come i dati dimostrino che il 60% delle vendite di alcolici nel Regno Unito sia collegato ai bevitori “a rischio” o a coloro che consumano alcolici a livelli pericolosi. Secondo il giornale uno studio in corso della Università di Sheffield aiuta a stabilire i valori di questi consumi: 38.2% del valore di alcolici venduto è attribuibile a bevitori a rischio ed il 24,5% a bevitori che fanno consumi pericolosi di alcol. Nell’articolo è citato anche un recente report Australiano che ha dimostrato dati simili. La Foundation for Alcohol Research and Education ha rilevato che i migliori clienti dell’industria degli alcolici sono i 3.8 milioni di Australiani che consumano più di quattro drink standard al giorno. Sono il 20% dei bevitori sopra i 14 anni, ma bevono il 74.2% di tutto l’alcol consumato. L’industria li definisce “super consumers”. Per quanto riguarda l’Italia, tra i primi Paesi produttori di alcolici e livello mondiale, non ho trovato dati confrontabili. Ciò che è chiaro è che i Servizi Dipendenze rimangono storicamente, più strutturati per l’intervento sulle droghe illecite.

Chi inizia un comportamento a rischio «additivo» è come rimanesse in equilibrio su un filo. Se cade da una parte viene raccolto dalla emergenza urgenza e trattato in un Pronto Soccorso (per poi, spesso, ritornare sul filo). Se cade dall’altra parte viene raccolto da un Servizio Dipendenze. L’importante, commercialmente, è che cammini sul filo il più a lungo possibile bevendo, drogandosi … giocando «responsabilmente».

L’OMS ha definito il fumo “la prima causa di morte evitabile” nei nostri Paesi. Tuttavia raramente si sono sviluppati programmi preventivi dedicati a pazienti psichiatrici ed a persone affette da disturbi correlati a (altre) sostanze o di addiction. Allo stesso modo, solo in alcuni casi, vengono proposti programmi strutturati per la cura del tabagismo a queste categorie di persone. In alcune strutture residenziali che si occupano di tossicodipendenti le sigarette rimangono un benefit legato all’accoglienza. È da tempo noto che tra i pazienti affetti da malattia mentale la probabilità di diventare fumatori sia circa il doppio che per altre categorie di persone[9]. Alcune documentazioni interne dell’industria del tabacco suggeriscono come le persone psicologicamente vulnerabili siano una parte importante del mercato. Studi effettuati alla fine del secolo scorso osservavano, infatti, come le persone con un disturbo mentale diagnosticabile consumavano quasi la metà di tutte le sigarette fumate negli Stati Uniti. La propensione al fumo nelle nazioni occidentali è diminuita progressivamente ma, comunque, è comune osservare come il fumo rimanga particolarmente diffuso nella popolazione affetta da problemi mentali. La prevalenza dei fumatori è più alta anche nelle persone che si sottopongono ad un trattamento per una tossicodipendenza, rispetto alla popolazione generale e questo è particolarmente vero nei soggetti dipendenti da oppiacei in terapia agonista sostitutiva. D’altra parte esistono evidenze relative al fatto che i cocainomani presentano una forte dipendenza dal tabacco: fanno meno tentativi di sospenderne l’uso rispetto agli eroinomani e hanno maggiori difficoltà a smetterne l’assunzione. Ci sono ragioni sia culturali che biologiche sottostanti al problema (per esempio relative a come il fumo di tabacco interagisce con i sistemi neuronali legati alla ricompensa) ma “resta il fatto che le persone in trattamento per l’abuso di droghe finiscono per morire per causa del fumo di tabacco molto di più della popolazione generale, perché fumano molto di più della popolazione generale” (Joseph Guydish, docente di medicina alla the Università di California, San Francisco e studioso della materia). Ciononostante l’attenzione al tabagismo all’interno del Sistema di Intervento sulle dipendenze patologiche non ha il peso che ci si potrebbe aspettare, nemmeno nelle attività tese alla “riduzione del danno” connesso all’uso di sostanze.

Alcol e tabacco sono due esempi di come le emergenze spostino l’attenzione verso problemi specifici ma la facciano perdere rispetto ad altri che, invece, dovrebbero essere molto più visibili.

E’ chiaro quindi che i Servizi Dipendenze in un prossimo futuro dovranno essere orientati in maniera diversa dalla attuale se vorranno effettivamente “onorare” la scelta di occuparsi delle dipendenze patologiche e non solo di alcune tossicodipendenze da sostanze illecite, anche aiutando ed aiutandosi a superare certi stereotipi che, almeno per quanto riguarda il gioco d’azzardo, sono stati evidenziati in un tweet di poche parole da Maurizio Crozza, comico, imitatore e conduttore televisivo:

Ma in un mondo che dovrebbe essere fatto di “evidenze scientifiche” (purtroppo ancora poche rispetto a quanto sarebbe necessario N.d.A.) è abbastanza … evidente … che ciò che può sollevare consensi da una parte solleva resistenze dall’altra e che di fronte a situazioni o a sostanze diverse anche gli atteggiamenti di chi opera nel settore cambiano (provi il lettore a sostituire “Gioca responsabilmente”, nella frase di Crozza, con “Bevi responsabilmente” e già le cose potrebbero cambiare come, probabilmente, cambiano ulteriormente rispetto a chi sostiene la possibilità di un uso “responsabile” di droghe).

Negli anni più recenti in molte regioni italiane i Servizi Dipendenze sono stati inseriti all’interno dei Dipartimenti di Salute mentale. Non tutti condividono questa scelta ma senza dubbio rappresenta, per i Servizi stessi la possibilità di una parziale uscita da un isolamento che li aveva riguardati per anni. Ci vorrà del tempo per valutare l’opportunità di questo tipo di organizzazione e per capire se, appunto, è considerabile una opportunità oppure soltanto un ripiego razionale per un Sistema Sanitario che, nel suo complesso, ha sempre meno risorse.

In ogni caso, sin dagli anni’80, negli USA, il National Institute of Mental Health, il National Institute of Drug Abuse ed il National Institute on Alcohol Abuse, and Alcoholism, raccomandavano un trattamento integrato per i pazienti “doppia diagnosi”. Alcune considerazioni provenienti dall’ambito psichiatrico ed altre proprie del settore dell’intervento sulle dipendenze patologiche, hanno portato all’opinione che in molti soggetti la presenza di un disturbo da uso di sostanze corrisponda abitualmente alla copresenza di altri disturbi più tradizionalmente definiti psichiatrici (es. disturbi di personalità).

La presenza dei Servizi Dipendenze nei Dipartimenti Salute Mentale prefigura un insieme operativo che dovrebbe essere in grado di offrire programmi più adeguati per i soggetti con “doppia diagnosi” anche tenendo presente che oggi, probabilmente, solo una parte delle persone che risultano affette da patologie inquadrabili in una “doppia diagnosi” può ricevere un trattamento appropriato per entrambe le condizioni. Detto ciò sono esistiti e permangono una serie di condizionamenti, culturali, operativi e di mandato che, sebbene non esplicitamente, hanno indirizzato i Servizi Dipendenze verso un particolare tipo di utenza (soprattutto uomini e soprattutto tossicodipendenti da sostanze illecite). I programmi di trattamento e l’organizzazione dei Servizi di cura si sono così “adattati” soprattutto a questa tipologia di utenza. Anche gli studi e le ricerche di settore si sono mosse in questo senso, senza, ad esempio, particolari attenzioni alle differenze di genere che, a livello epidemiologico, sono eclatanti. La confluenza nel Settore della Salute Mentale non è detto possa, di per sé modificare questo tipo di impostazione: un limite che va tenuto presente. Se i Dipartimenti di Salute Mentale (Salute Mentale e Dipendenze come sono chiamati in Lombardia), in considerazione della progressiva riduzione delle risorse connessa con le disposizioni di contenimento della spesa, dovessero orientarsi ancora di più su un particolare tipo di utenza (soprattutto uomini, soprattutto dipendenti cronici da sostanze illecite contemporaneamente affetti da disturbi mentali medio gravi) diventerebbe difficile trovare altri tipi di risposte per la rimanenti tipologie di potenziale utenza; per la possibilità di intervenire precocemente per prevenire la cronicità senza limitarsi, semplicemente a gestirla;  per meglio intervenire sui disturbi da uso di sostanze lecite, che sono molto più diffusi di quelli inerenti le sostanze illecite.

A più di quarant’anni dalla loro nascita i Servizi territoriali di intervento sulle dipendenze patologiche si trovano di fronte a fenomeni ancora in mutazione relativamente rapida. Gradualmente il loro mandato è sempre più orientato verso il trattamento di tutte le dipendenze patologiche, non solo di alcune. Ma il Sistema sanitario nel suo complesso e la popolazione generale conservano una sorta di stigma verso il tossicodipendente che finisce per stigmatizzare in generale tutto il settore. Questo stigma, per diverse ragioni, è uno dei principali fattori del ritardo con cui le persone si rivolgono ai Servizi di cura … quando non ne possono più fare a meno. Spesso quando ormai sono in una situazione di cronicità.

I Servizi Dipendenze hanno, come abbiamo visto, un passato ed una storia, hanno accumulato una grande esperienza ma hanno anche di fronte un futuro appena iniziato ed ancora tutto da costruire, probabilmente più distante dai concetti di “guerra alla droga” e più vicino alla normale mission del Sistema Sanitario nel suo complesso.

Il tema fondamentale di questa costruzione potrebbe essere: il Sistema Sanitario Pubblico, nel suo complesso, deve intervenire principalmente per gestire la cronicità ed i problemi di salute connessi con le dipendenze patologiche oppure deve organizzarsi, come per altre patologie gravi, invalidanti e talvolta mortali che colpiscono la popolazione attiva, per prevenirle ed intervenire il più precocemente possibile, quando si manifestano? Attenzione: la risposta non è scontata, soprattutto quando pensiamo non solo alle droghe ma ad altre possibili determinanti lecite di dipendenza patologica. Una decisione piuttosto che un’altra comporta modelli organizzativi e di funzionamento diversi. Si deve tener presente che intervenire su tutte le dipendenze patologiche, possibilmente in fase precoce, oltre alla buona volontà, richiede una capienza dei Servizi di cura superiore a quella attuale. Indubbiamente la pura gestione della cronicità è la scelta forse meno difficile dal punto di vista organizzativo e comporta un impegno più ridotto del Sistema Sanitario nel suo complesso. È anche vero che parte dei cittadini si stanno indirizzando (o vengono indirizzati) verso l’utilizzo di assicurazioni sanitarie integrative che, gradualmente, raggiungeranno una massa critica in grado di condizionare l’offerta di cura, eventualmente anche nell’ambito delle dipendenze patologiche. Quale saranno le loro scelte in questo ambito? Da queste risposte dipende anche il destino e la mission degli attuali Servizi dedicati e, in un certo senso, considerata la diffusione dei fenomeni di cui parliamo, la salute ed il benessere di tutti noi.

Riccardo C. Gatti

Una versione di questo scritto è pubblicata nel testo “Dipendenze Patologiche in Area Penale” curato da Francesco Scopelliti, Renato Rizzi e Rossana Giove – Edizioni Materia Medica – 2018

Bibliografia

 

[1] Richard Nixon: “Remarks About an Intensified Program for Drug Abuse Prevention and Control.,” June 17, 1971. Online by Gerhard Peters and John T. Woolley, The American Presidency Project. http://www.presidency.ucsb.edu/ws/?pid=3047.

[2] La disciplina penale degli stupefacenti a cura di Gaetano Insolera pag. 205 – Giuffrè Editore, 2008

[3] History http://www.history.com/topics/the-war-on-drugs

[4] Vittorino Andreoli – La Testa Piena di Droga – BUR 2008

[5] Gowing L, Farrell M, Bornemann R, Sullivan LE, Ali R. Substitution treatment of injecting opioid users for prevention of HIV infection. Cochrane Database of Systematic Reviews 2008, Issue 2. Art. No.: CD004145. DOI: 10.1002/14651858.CD004145.pub3.

[6] Mattick RP, Breen C, Kimber J, Davoli M. Methadone maintenance therapy versus no opioid replacement therapy for opioid dependence. Cochrane Database of Systematic Reviews 2009, Issue 3. Art. No.: CD002209. DOI: 10.1002/14651858.CD002209.pub2

[7] Mattick R, Kimber J, Breen C, Davoli M. Buprenorphine maintenance versus placebo or methadone maintenance for opioid dependence. Cochrane Database Syst Rev. 2003:CD002207

[8] Curcio F, Franco T, Topa M, Baldassarre C: Buprenorphine/naloxone versus methadone in opioid dependence: a longitudinal survey. Eur Rev Med Pharmacol Sci. 2011, 15 (8): 871-874.

[9] Haustein KO, Haffner S, Woodcock BG.. A review of the pharmacological and psychopharmacological aspects of smoking and smoking cessation in psychiatric patients. Int J Clin Pharmacol. 2002;40:404–418.