Chissà quante volte ti sei chiesto: “ma non hanno paura di morire?”. Probabilmente non hai trovato una risposta precisa. Come è possibile che ci siano persone che rischiano di morire per il puro gusto di assumere droghe? E, per chi pensa che il tutto sia legato solo ad overdose da siringa in vena, ricordo che le principali cause di morte precoce evitabile, stanno nel consumo di alcol e tabacco. Quindi, nulla a che fare con il “fascino del proibito”, legato alle droghe illecite. Secondo un recente “Fact Sheet” della Organizzazione Mondiale della Sanità, ogni anno, nel mondo, muoiono circa tre milioni di persone per un uso pericoloso di alcol e tra i 20 ed i 39 anni il 13,5% di tutti i decessi sono attribuibili all’alcol[1]. Più o meno in Europa, solo per l’alcol muoiono 800 persone al giorno.

 

Eppure dato che le droghe fanno male ed è risaputo, ma, nonostante tutto c’è chi continua ad usarle, ora ci si muove verso posizioni preventive più “scientifiche” che, partendo da considerazioni lapalissiane (le droghe non sono tutte uguali), finiscono, passando dalla “educazione alla salute”, sino a postulare la necessità di una “educazione al consumo” dei più giovani, magari fatta a scuola, in un’ottica di riduzione dei rischi di consumi che non dovrebbero esserci. Cosa, questa, che piace a molte persone del fronte che postula la legalizzazione della cannabis, ma non ad altri che vedono la medesima proposta, fatta dai produttori di vini, soprattutto come un metodo per aumentarne i consumi: la declinazione promozionale degli slogan che invitano a consumare, aggiungendo il termine “responsabilmente”.

 

Insomma: “E’ un mondo difficile: vita intensa, felicità a momenti e futuro incerto”, cantava Tonino Carotone all’inizio del secolo, e si sa che gli artisti sono, a loro modo, profetici.

Fatto sta che, anche in seguito alla pandemia, tutti spingono sui consumi come strumento di ripresa economica ed anche le droghe sono un bene di consumo. Per le droghe illecite, se la domanda crollasse, crollerebbe l’economia illegale connessa, ma anche l’indotto sulla economia legale. Le droghe sono una specie di tassa da pagare che poi viene reinvestita anche in attività legali: non per nulla si tratta di un mercato computato nel PIL. Chi propone la loro legalizzazione, infatti, insiste sui proventi fiscali che potrebbero procurare, sperando che lo Stato abbia almeno le medesime capacità delle mafie nel reinvestirli. Certo è che, legalizzazione o meno, se i consumi di droghe cessassero, anche parti importanti delle forze dell’ordine, della magistratura, degli avvocati, del sistema carcerario, e, non ultimo, del sistema socio-sanitario, non avrebbero più lavoro. Era ancora il secolo scorso quando Vasco Rossi cantava[2]:

 

T’immagini

La faccia che farebbero

Se da domani davvero

Davvero tutti quanti smettessimo

 

T’immagini

Quante famiglie sul lastrico

Altro che crisi del dollaro

Questa sì che sarebbe la crisi del secolo

 

Ma la sua profezia di artista riguardava l’utopia di un mondo senza droga (e della guerra alla droga)

 

“Fantasie, fantasie che volano libere

fantasie che a volte fan ridere

fantasie che credono alle favole…”

 

Alle favole di un mondo dove “E’ sempre domenica”. Che, ovviamente, non può esistere.

 

E così siamo arrivati ai giorni nostri, nel bel mezzo di una pandemia che sta facendo strage e dove le droghe lecite o illecite che siano, possono continuare a fare la loro strage parallela, senza preoccupare: l’emergenza adesso è un’altra. Questo anche se negli USA, da anni, muoiono prematuramente almeno 70.000 persone all’anno, solo per overdose in cui sono coinvolte sostanze lecite e illecite. Una situazione che sembra stia peggiorando con la pandemia da Coronavirus. Come se non bastasse l’OMS calcola che “quasi 6 milioni di persone perdono la vita ogni anno per i danni da tabagismo, fra le vittime oltre 600.000 sono non fumatori esposti al fumo passivo[3]”. Nel mondo, inoltre, l’alcol uccide annualmente tre milioni di persone[4] mentre 132 milioni di persone vivono affette da disabilità alcol correlate.

 

Eppure anche l’alcol continua a piacere ai musicisti e soprattutto a chi li ascolta.

 

Hey tipa, vieni in camera con me!
Quanto sei porca dopo una vodka
io non lo so cosa ti faccio
però mi cerchi lo so che ti piaccio
sono una merda ragiono col c***o
oggi ti prendo, domani ti lascio [5]

 

Dei dati sulle sostanze lecite si parla poco. Si preferisce lanciare emergenze sui “boschetti della droga” o su singoli fatti di cronaca. Descrizioni drammatiche che, comunque, diventano quasi rassicuranti, perché trasportano mondi e situazioni che la maggior parte di noi vede da distante, sicuro che non lo riguarderanno mai da vicino.

Così rimaniamo giustificati per non investire risorse almeno pari a quante ne investiamo per il Coronavirus, nell’ambito della prevenzione e della cura riguardante l’uso di sostanze psicotrope. Niente scuole di specializzazione dedicate per Medici e Psicologi (si preferisce demandare il tutto alla psichiatria ed alla psicologia generale) e nemmeno per chi dovrebbe fare prevenzione; Servizi Dipendenze che si occupano soprattutto di sostanze illecite, quando il problema più grande sono quelle lecite; pochi centri antifumo, quando il tabacco uccide una persona ogni sei secondi ed è a tutti gli effetti un’epidemia fra le peggiori mai viste a livello globale. Il totale dei decessi entro il 2030 potrebbe raggiungere quota 8 milioni all’anno e si stima che nel XXI secolo il tabagismo avrà causato fino a un miliardo di morti.

 

Insomma numeri che rischiano di dare l’effetto di “armi di distrazione di massa” anche alle stigmatizzate canzoni che inneggiano all’uso di droga, di gente che ti chiama Zio e che nei video mette discorsi e atteggiamenti che “fanno brutto”. Ci mancano solo le pistole tenute di traverso, per diventare una serie televisiva, ma a volte ci sono anche quelle.

 

“Vivo a Milano da quando Dio m’ha sputato quaggiù

Finché il cuore non batte più dalla strada nella tv

Sì déjà vu se vi sento rimare solo di bamba

Zio, ho fatto il coca-rap prima dei rapper ad Atlanta”[6]

 

Ma insomma, non abbiamo paura di morire?

 

Astrattamente si, concretamente no, altrimenti non potremmo vivere. Stiamo attraversando una delle più grandi pandemie della nostra storia, ma anche un “esperimento sociale” di enorme portata, per capire la potenza di meccanismi di protezione dall’ansia, come la negazione. Così, c’è chi aumenta la possibilità di cambiare la propria storia, infettandosi e trasformandosi da sano in malato. Ma il risultato complessivo non muta: arriva una festa, una occasione qualsiasi, e ci ammassiamo tutti, trovando scuse e diamo credito a qualcuno che ci spiega che le ambulanze girano a sirene spiegate solo per creare terrore. Non pare che ci sia paura di morire. D’altra parte anche chi Governa non è estraneo a questi meccanismi ed oscilla tra la negazione e gli appelli alla responsabilità con risultati, a volte, paradossali, mentre nel circo televisivo, anche gli “scienziati” fanno le loro pessime figure.

 

Chi usa droghe, lecite o illecite, allo stesso modo non pare aver paura di morire. Astrattamente si, concretamente no. E se nega la possibilità della morte, nega anche quella della malattia, esattamente come, singolarmente o in branco, stanno facendo in molti durante la pandemia. E, guarda caso, le azioni preventive, anche in questo caso, sono il proibizionismo, da una parte, o l’invito a comportarsi responsabilmente. Il proibizionismo funziona sulla pandemia, ma se totale ed applicato a lungo, distrugge non solo la nostra libertà ma anche l’economia. L’appello ai comportamenti responsabili e le regole di comportamento funzionano molto meno, e vengono dimenticate rapidamente. Questa estate, in vacanza in Liguria volevo mangiare una pizza all’aperto e mi sono proposto di farlo in un ristorante dove almeno tutto il personale che vedevo indossasse la mascherina. Probabilmente sono stato sfortunato: ho rinunciato alla pizza.

 

Quanti morti e quante invalidità provocano i meccanismi di negazione? Per la pandemia a Sars-Cov- 2 è difficile fare un calcolo. Ci si può contagiare in modi diversi e giocano anche le circostanze o la casualità. Molti contagi derivano da comportamenti che il singolo non poteva evitare, come recarsi al lavoro su mezzi affollati, non da meccanismi di negazione o da superficialità, ma senz’altro, per quanto riguarda le sostanze psicotrope, il cui consumo sarebbe evitabile, i numeri parlano chiaro. Purtroppo, come anni fa avevo concluso con un gruppo di operativa di strada a cui facevo formazione, sarà banale ma le droghe sono pericolose perché il loro consumo è piacevole.

 

Astrattamente sembrerebbe più logico che in una società globale, dove le possibilità di informazione corretta non mancano, le persone assumessero comportamenti “responsabili” autonomamente. Ma abbiamo capito che questo, troppo spesso, non avviene. Il proibizionismo o l’antiproibizionismo, in ogni campo, hanno limiti evidenti: presentano vantaggi e svantaggi che è difficile pesare correttamente prima di averli applicati per un congruo periodo. Dopo di che, qualunque cosa accada, è difficile tornare indietro, come la realtà dimostra.

 

Forse sarebbe corretto lavorare sulla cultura delle persone per migliorare i loro strumenti di lettura critica della realtà. Adottare comportamenti “responsabili” è un concetto astratto, sino a quando non sono espresse e condivise le ragioni di questa responsabilità. La cultura, in questo senso è qualcosa che riguarda la collettività nel suo complesso, in relazione ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali che attraversa.

In questo momento la cultura comune è quella che risponde ad un istinto di sopravvivenza della specie: andare avanti comunque. È questa cultura comune che fa leggere, come rassicurante, il fatto che il Covid uccide soprattutto anziani con patologie pregresse o che stigmatizza il comportamento di chi muore per droga, perché, in fondo “se la è voluta”.

Sembra un individualismo esasperato ma, nel senso che abbiamo espresso, non è propriamente così. Anche se i più “deboli” moriranno, gli altri sopravviveranno e andranno avanti.

La “salvezza” rimane individuale, ma il risultato di sopravvivenza della specie, è collettivo. Esistono risposte più evolute ma richiedono, appunto, di colmare un vuoto culturale che si è creato nel passaggio dalla società post-industriale a quella interconnessa. Si tratta di riconquistare una cognizione persa: la responsabilità del nostro comportamento riguarda prima di tutto gli altri e, dopo, noi stessi. Ed è proprio riguadagnando questa cognizione che le cose si complicano ma si passa dall’individualismo, o dalla attitudine del branco, alla società civile avanzata e partecipata, che ha non pochi vantaggi evolutivi. Qui il “comportamento responsabile” è anche normato, ma viene assunto spontaneamente e collettivamente perché condiviso: non è più una questione individuale ed entra a far parte della cultura. Ma, attenzione, così come è possibile passare dalle barbarie alla “società della ragione” è anche possibile il percorso inverso. Già c’è chi, come Vittorino Andreoli, nota che oggi “Mancano le regole, gli esempi. Non ci sono più le leggi, che, diceva Platone, devono servire perché ci si rispetti tutti. La legge oggi è diventata una modalità per fare quello che si vuole giustificandosi. Non valgono più regole, parole che erano a fondamento del vivere civile”[7]. In pratica non esiste più la devianza e, un misto di comportamenti fino a qualche tempo fa considerati inaccettabili, non solo sono comuni, ma vengono anche cantati e rappresentati in serie televisive dove non è più chiaro, come nei film d’epoca, chi sia il buono ed il cattivo; cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Sono argomenti spariti dal contesto, un po’ come la scritta THE END, alla fine della proiezione. Per questo diventa così difficile anche educare o fare prevenzione. Mancano troppi parametri. A dire il vero, almeno in tema di droghe, una regola sembra esistere, tutto o quasi va bene, a patto che non dia scandalo o turbi l’ordine pubblico, ma produca profitto ed occupazione.

In questo senso la non paura di morire, per ignoranza (improbabile) o come meccanismo di negazione, diventa un modo di agire funzionale al profitto. Con il profitto si va avanti, si cresce. Verso cosa, tuttavia, non è definito e, se non si applica tempo, pensiero e ragione, per costruire una cultura nuova adeguata ai tempi, il rischio di una nuova inciviltà è alle porte. Per questo, più che opinionisti improvvisati servirebbero intellettuali: una categoria che sembra estinta.

Per questo, anziché parlare dell’effetto delle droghe vecchie e nuove, così come spesso mi chiedono i media, per sottolineare nuovamente che le droghe fanno male, o soffermarmi sugli scandali dei VIP o altri fatti di cronaca, che suscitano emergenze che finiscono la settimana successiva, preferisco portare il ragionamento su temi più complessi. Non sono né un opinionista e tanto meno un intellettuale ma, magari, posso aiutare a costruire qualche interrogativo e qualche risposta.

Forse così, caro lettore, quando ti chiederai, usando una sostanza, “ma non ho paura di morire?”, capirai perché la risposta teorica è, ovviamente si, come tutti, ma concretamente, con molta probabilità, non agirai di conseguenza. Quel giorno comprenderai anche come mai, chi poteva fermarsi in tempo, non lo ha fatto. Sebbene probabilmente classificato come un malato, esprimeva un sintomo di qualcosa che non riguardava soltanto la sua storia personale e per cui non abbiamo ancora trovato la cura, forse perché non c’è cura individuale per questo.

Concludo la riflessione con il testo dell’ultima parte di Jeans strappati di Ketama126 Ft. Fabri Fibra[8].  È anche un invito ad ascoltare ed a leggere la scrittura di questi generi musicali. Quando sono espressione artistica, e non semplici operazioni commerciali, possono aiutarci a comprendere il mondo in cui viviamo ed i sentimenti che lo attraversano.

 

Riccardo C. Gatti

 

(…)

 

Ah

Entro di qua con la mia strofa

Siamo a Milano tutti in posa

Di gente vera ce n’è poca

Parli male, lo fai apposta

Andavo in cerca di una donna

E invece ho trovato solo droga

Tutti che seguono la moda

Quanta paura fa la noia

 

Vivo nella mia bolla

Fuori il mondo che crolla

Ancora una volta (ancora una volta)

 

E vorrei morire adesso

Autopsia dopo il decesso, è droga

Io non sono più lo stesso, ah

Lei piange sotto un cipresso, e ricorda

Io ho scordato come fare si, l’amore

Ma son diventato bravo si, a scopare

Mi serve un’infermiera, non un dottore

E voglio morire in strada, non dentro un ospedale

Trap, jeans strappati

Ragazzi sballati

 

In giro fino a tardi

Ricordi sfocati

 

[1] WHO – Fact sheet on alcohol consumption, alcohol-attributable harm and alcohol policy responses in European Union Member States, Norway and Switzerland (2018) https://www.euro.who.int/en/health-topics/disease-prevention/alcohol-use/publications/2018/fact-sheet-on-alcohol-consumption,-alcohol-attributable-harm-and-alcohol-policy-responses-in-european-union-member-states,-norway-and-switzerland-2018

[2] T’immagini – Album “Cosa succede in città”

[3] Fonte – pagina informativa sul fumo del Ministero della Salute

[4] WHO – Global status report on alcohol and health 2018

[5] Hey Tipa – Sfera Ebbasta

[6] Club Dogo – Puro Bogotà

[7] Fonte: Huffpost 4 maggio 2019 intervista di Luciana Matarese

[8] “Jeans Strappati” è una canzone di Ketama126 feat. Fabri Fibra estratta dall’album “Kety” (2019).