È una domanda che mi sento fare con una certa frequenza da colleghi che lavorano nei SERD (Servizi Dipendenze Pubblici) e che, in realtà, dovrebbe essere posta, più che a me, a chi si occupa di media.

La domanda, tuttavia ha un sottointeso che è meglio esplicitare, perché ne valorizza il significato: se parlassero di noi, ci conoscerebbero più persone per quello che facciamo e per i risultati che abbiamo e, quindi, chi ne avesse bisogno, si rivolgerebbe ai Servizi dipendenze più precocemente.

Giusto. Molte, troppe persone, arrivano ai SERD quando hanno problemi seri, ovvero quando non ne possono fare a meno perché stanno male o hanno problemi legali, insomma quando un danno legato ai loro consumi o agli stili di vita conseguenti, si è già manifestato ed, a volte, è irreversibile. Purtroppo, infatti, il danno è definibile come “cronicità”, quindi, qualcosa che è curabile ma che segnerà comunque il percorso di vita di chi ne è affetto.

Purtroppo i Servizi Dipendenze scontano anche un “difetto” genetico: non nascono per una evoluzione della clinica, ma in seguito ad emergenze e ad una “guerra alla droga” che, promettendo pene e restrizioni della libertà per chi vendeva droghe e per chi le comprava, doveva pur dare, alle vittime di questo mercato illecito, qualche via di uscita che non fosse il carcere o la pura punizione.

Finita l’emergenza, anche perché non si può stare in emergenza per più di trent’anni sempre per la medesima ragione, a livello programmatorio e legislativo ci si è accorti che cercare di prevenire e curare le dipendenze è qualcosa di più complesso di dichiarare guerra alle droghe (illecite). Le sostanze lecite, come alcol e tabacco ed anche farmaci usati a sproposito, nell’ambito della salute, provocano nettamente più problemi, ed il fatto che siano più diffuse non è certamente una spiegazione rassicurante. Poi ci sono anche dipendenze patologiche non da sostanze e, pure di queste bisogna occuparsi. Offrire cure gratuite, paradossalmente, diventa anche una giustificazione etica per l’avvio di un mercato del gioco d’azzardo legale che genera occupazione, ricchezza ed entrate erariali, ma anche patologia, per chi non riesce a “giocare responsabilmente”.

Così i SERT (Servizi Tossicodipendenze) sono diventati SERD (Servizi Dipendenze) ma senza riuscire a definire completamente il loro posizionamento all’interno del Servizio Sanitario Nazionale e nelle sue declinazioni Regionali. Servizi specialistici? Probabilmente si, ma con quali specialisti se non esistono specialità in medicina delle dipendenze o in psicologia delle dipendenze che ne possano costituire il substrato? Un discorso, dunque, complesso, con una storia che vede oscillare i SERD tra modi molto avanzati di costruire interdisciplinarietà operativa e modelli obsoleti di funzionamento e di governo strategico del settore, che rivendica collegamenti a Conferenze, Comitati, Dipartimenti Nazionali ed Osservatori che sarebbero anacronistici per qualunque altro campo clinico e dove l’ambito scientifico, la rappresentanza dei lavoratori e dei pazienti, la lettura dei fenomeni, tendono a confondersi in un unico corpo.

Una confusa complessità mai risolta che trovava una emblematica rappresentazione nelle passate Conferenze Nazionali “Antidroga”, previste dalla legge del ’90 e che mettevano tutti gli interlocutori insieme, SERD, Comunità, Forze dell’Ordine, Politici, Magistrati, Mamme, Ex tossicodipendenti, Leader Carismatici, Società Scientifiche, Esperti di vario genere, senza che si capisse esattamente chi rappresentava cosa e perché. Conferenze Nazionali che vengono periodicamente invocate a più voci, anche perché la legge che le istituisce è ancora in vigore e che potrebbero rievocare gli stessi dibattiti fermi, appunto, agli anni ’90, come si è visto sui media dopo presentazione della docu-serie Netflix SANPA, su luci ed ombre di San Patrignano.

Ma ritorniamo alla domanda iniziale. “Perché non parlano (di più) di noi?”

Se si tratta di giornalisti e programmi di informazione direi che manca La Notizia. Il fatto che ci sono persone che curano una patologia, qualunque essa sia, non è una notizia ma quello che ci si aspetta normalmente da un Sistema Sanitario come il nostro. Ma anche il già citato posizionamento dei Servizi ha un suo peso. Quale deve essere il target della comunicazione?  La tendenza sembra quella di assorbire l’azione dei SERD in ambito psichiatrico, con il rischio che gradualmente si possano trasformare, di fatto, servizi per pazienti psichiatrici che hanno qualche forma di dipendenza. È questo che dovrebbe essere comunicato? A chi? Con quale effetto possibile?

In realtà qualche comunicazione sociale viene fatta, soprattutto quando rappresenta accordi tra Enti diversi, dove l’azione repressiva e quella preventiva assumono significati simili, unificati nel vocabolo “contrasto”. Ma i richiami alla salute sono flebili, mentre le descrizioni parlano di emarginazione, di microcriminalità e di malattia.  Insomma, cose da cui la “gente comune”, compresa quella che usa sostanze di vario genere, vuole stare ben distante, nei limiti del possibile. Questo perché la “gente comune” non considera più l’uso di sostanze una emergenza, se non si collega a disturbo della quiete pubblica, del decoro urbano o della sicurezza.

Mentre chi comunica percorre le strade di sempre: se le droghe sono quelle illecite lo spaccio è la causa del problema e non la conseguenza di una consistente domanda trasversale di droghe che solo in parte ridotta ha a che fare con la devianza, le controculture, lo sballo e con quel disagio che da sempre, chissà perché, viene attribuito ai giovani e non ad altri.

Insomma un bel cortocircuito: “non parlano più di noi” ma, quando ne parlano o parlano degli argomenti che ci riguardano … sarebbe anche meglio di no. Oppure si accetta di seguire la corrente e si partecipa, cercando di lanciare qualche messaggio positivo nel mare di una comunicazione frettolosa e, spesso, distorta dalla necessità di creare una notizia, anche quando non c’è.

Non c’è via di uscita? Può essere.

Tra l’altro avere Servizi Pubblici che riescono a raccogliere i problemi più gravi e la cronicità, ma non incidono più di tanto sulla diffusione dei fenomeni di uso di sostanze, sui consumi a rischio, sulle dipendenze patologiche e, quindi, sulle potenzialità dei mercati che li sottendono, è sempre stata una regola, tanto inquietante, quanto non scritta. D’altra parte se la prevenzione fosse veramente efficace e le cure fossero realmente precoci, certi mercati leciti ed illeciti non si svilupperebbero e, quindi, addio profitti, posti di lavoro ed investimenti di settore. Insomma, anche la tutela della salute ha i suoi compromessi e, in questo ambito, il consumatore a rischio rende senz’altro infinitamente di più del paziente in cura, che è solo un costo. Per cui è più facile nell’ambito della comunicazione trovare chi spinge verso determinati stili di vita e di consumo, avvalendosi di concetti volutamente confusionari e di verità raccontate solo in parte che li spostano, addirittura, in ambiti salutistici. È successo con le sigarette, succede ancora con gli alcolici, con i farmaci, con la cannabis e con gli allucinogeni. Chi cerca di portare una visione critica nella lettura della spinta verso questi consumi, compresa l’offerta di gioco d’azzardo, può essere rapidamente squalificato come “moralista”, facendo anche notare i possibili rientri per l’Erario e lo stato di necessità delle persone che di questi consumi vivono e che, altrimenti, non saprebbero che altro fare (vale per il lecito, ovviamente, ma non sono sicuro che non valga anche per l’illecito, sebbene in modo meno evidente, visto che i mercati illeciti sono computati nel PIL).

Eppure una strada alternativa ci sarebbe. Non è facile, infatti veramente in pochi l’hanno percorsa, trattenuti forse da quelli che citavo come “modelli obsoleti di funzionamento e di governo strategico del settore” che hanno impedito di capire che anche la comunicazione è cambiata e che, in certi ambiti, è molto più potente ed efficace la comunicazione diretta che attraversa la Rete ed i Social, di qualunque Servizio giornalistico. Insomma, la domanda potrebbe essere non tanto “Perché non parlano (di più) di noi?” quanto “Perché non parliamo di noi e del nostro lavoro, raccontandoci?” Si tratta di attrezzarsi per affrontare un confronto che oggi ha infinite vie per poter essere sviluppato in modo efficace e diretto, attraverso mezzi che sono potenti e tutt’altro che virtuali. Si tratta di raccontarsi e raccontare metodologie, percorsi operativi, speranze delusioni e successi che hanno a che fare con un ambito, ai più sconosciuto, dove terapeuti e pazienti lavorano (ancora) insieme per costruire il futuro e spesso ci riescono, con i soli limiti delle loro reciproche capacità e con l’entusiasmo che, a volte, solo questo tipo di interazione tecnologica ed umana può ancora dare. In questi anni abbiamo imparato tante cose; possiamo imparare anche questo.

Riccardo C. Gatti