ingranaggi2La comorbilità, o doppia diagnosi, è definita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) come la «coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive e di un altro disturbo psichiatrico» (OMS, 1995).

Ma è grave essere un “doppia diagnosi”?

Poco per volta la definizione di “doppia diagnosi” è diventata una diagnosi, mentre invece non lo è: ai fini della gravità della situazione è un termine che dice poco o nulla anche se, normalmente, quando viene usato, difficilmente identifica problemi trascurabili.

Nel recente DSM-V, la “bibbia” della diagnosi psichiatrica, è definita la categoria “Disturbi da dipendenza e correlati all’uso di sostanze”. Una diagnosi di questo tipo è il primo elemento necessario perché possa essere definita una “doppia diagnosi”.

Nel DSM-V vengono fuse due categorie del precedente manuale DSM-IV-TR (abuso e dipendenza) in un unico disturbo da uso di sostanze, che, però, è misurato in un continuum da lieve a grave. Per fare diagnosi occorre la presenza di due sintomi su 11 descritti (è stato aggiunto il desiderio compulsivo) per 12 mesi. Precedentemente per la diagnosi di abuso di sostanze ne bastava uno. Così facendo è più difficile considerare come “malato” il semplice consumatore di droga, lecita o illecita che sia.

Quindi, chi è definito un “doppia diagnosi” ha anche un problema psichiatrico in più che rende la situazione problematica, anche per quanto riguarda il trattamento.

Tuttavia il termine di per sé è generico: non permette di capire quanto il problema sia grave. Per esperienza devo dire però che, quando viene usato, difficilmente si tratta di una situazione poco problematica.

Quindi, per ritornare alla domanda sulla gravità, direi che la “doppia diagnosi” non è una situazione che può essere presa “alla leggera” e prevede la necessità di un intervento complesso tra cui, senz’altro, quello di uno specialista in psichiatria con cure che si devono protrarre nel tempo.

E’ quindi sempre una situazione molto grave e con poche vie di uscita?

Direi di no e vediamo perché.

Droghe e sostanze d’abuso sono sempre psicoattive. Può accadere che una persona le assuma perché ha già problemi psichici (o psicologici) che, in qualche modo, vengono così contenuti.

Spesso, tuttavia, droghe e sostanze d’abuso sono causa di sintomi psichiatrici o, comunque, li amplificano, o, ancora, ne facilitano l’insorgenza facendoli affiorare. La correlazione sembra banale ma non sempre chi assume sostanze psicoattive riesce a farla automaticamente. Le sostanze che preferisce, nell’immediato, lo fanno sentire meglio, non peggio.

Mi spiego con un esempio: mi perdonino i tecnici del settore se a scopo esplicativo semplifico situazioni che hanno sfumature e svolgimenti più complessi. Ovviamente è solo uno degli esempi possibili di una situazione particolare. Non sempre il percorso è quello descritto.

Una persona che assume cocaina, in alcuni casi, potrà sentirsi meglio nel superare una situazione di depressione, magari reattiva ad una difficoltà di lavoro. Tuttavia, continuando ad assumerla, la situazione peggiorerà. A distanza dall’assunzione, l’astinenza dalla sostanza si manifesterà proprio con depressione. L’assunzione continua per evitare la depressione, però, incomincerà a svegliare sintomi persecutori di tipo paranoide sino sfociare in una vero e proprio stato di psicosi. La persona si sentirà impaurita, braccata, osservata, oppure, al contrario, onnipotente ed incompresa ed il suo esame di realtà sarà completamente alterato. Salteranno i rapporti di lavoro, quelli affettivi, verranno prese decisioni sbagliate perché il senso critico e la capacità di giudizio saranno alterate.

Una situazione di doppia diagnosi? Si, ma direttamente per l’effetto della cocaina.

Nella maggior parte dei casi, infatti, i pazienti “doppia diagnosi”, dopo una stabile astensione dall’uso di droghe e sostanze d’abuso (tutte, mi raccomando!!!), migliorano molto dal punto di vista psichiatrico e, quando peggiorano, esistono farmaci più adatti delle droghe per curare efficacemente i sintomi che presentano.

Ovviamente la situazione deve stabilizzarsi perché in presenza di una astinenza i meccanismi cerebrali dovranno trovare tempo e modo per ritrovare un equilibrio di funzionamento che non si trova in tempi brevissimi. Occorrono senz’altro mesi ed è per questo che ho parlato di cure che debbono protrarsi nel tempo e vanno condotte da persone esperte. Non è raro, perciò, che con un’astensione sufficientemente lunga da droghe e/o sostanze d’abuso la situazione migliori di molto dal punto di vista psichico e, di fatto, non sia più possibile una “doppia diagnosi”.

In alternativa, risolta la dipendenza o l’uso improprio di sostanze psicoattive, rimarranno sintomi psichiatrici da curare magari già presenti o amplificati dalle sostanze ma, nella quasi totalità dei casi, potrà essere trovato il modo di contenerli decisamente o di eliminarli attraverso farmaci oppure interventi di tipo psicoterapico o entrambi.

Purtroppo spesso ci sono ostacoli a questo tipo di percorsi che hanno un buon esito e si tratta di ostacoli che pongono proprio le persone che manifestano i problemi da risolvere. Vediamone alcuni:

  • Esame di realtà. Ciascuno di noi fa molta fatica ad ammettere che la propria mente possa non funzionare bene e, soprattutto, non essere sotto controllo. Noi vediamo il mondo attraverso il nostro cervello e la realtà è quella che ci mostra. E’ più facile pensare che qualcosa non funzioni all’esterno di noi stessi piuttosto che dentro di noi. Per questo non vogliamo farci curare anche quando chi ci è vicino avverte che qualcosa non va. Se poi ci propongono psichiatri o psicologi … brr … non siamo matti, non ne abbiamo bisogno!
  • Questione tempo. Quanto definito al punto precedente fa perdere moltissimo tempo. Non parlo di giorni o di mesi ma di anni. Già per un lungo periodo, quando iniziamo ad usare sostanze psicoattive, tutto sembra andare nel migliore dei modi. E’ come un amore all’inizio. Fantastico. Poi subentrano i problemi ma, soprattutto quando riguardano la sfera psichica, non riusciamo a rendercene conto. Insomma, se non accadono incidenti o situazioni eclatanti, siamo in grado di autoingannarci a lungo, anche quando abbiamo il sospetto che le cose non stiano andando nel modo migliore. Se subentrano problemi psichici connessi all’uso di droghe, indipendentemente dal fatto che siano preesistenti o meno, non possono che aggravarsi. Insomma, come per qualsiasi malattia, tanto più si aspetta a intervenire quanto più grandi e irreparabili sono i danni. Ha senso aspettare? No ma lo facciamo.
  • Questione stigma. Parliamoci chiaro: matti e tossicodipendenti sono quanto di peggio esista nell’immaginario collettivo, assieme ai criminali. Nessuno entra volentieri nella categoria. Una serie di stereotipi culturali e di atteggiamenti, cui non sono estranei nemmeno gli operatori del settore ed il mondo della comunicazione, dipingono uno stereotipo che definisce il tossicodipendente come un criminale (drogarsi è illecito), malato mentale e per di più cronico e recidivante. Il tutto è sufficiente per evitare l’esame di realtà e non risolvere la questione tempo che ho descritto ai punti 1 e 2. Se poi qualcuno ci definisce un “doppia diagnosi” è come venissimo messi alla gogna. Questo sentimento è tanto più forte quanto più siamo sani. Teniamolo presente. Se ci preoccupiamo di queste definizioni e di ciò che rappresentano, siamo già sulla strada della guarigione. E’ paradossale ma, spesso è così. La nostra parte sana ci chiama. E’ il momento di non fuggire ma di affrontare la situazione per il verso giusto.

Gradualmente, socialmente, ci stiamo accorgendo che le situazioni di dipendenza fanno parte della nostra vita normale e che sono le dipendenze patologiche, invece, ad essere pericolose e soprattutto “bloccanti” per la nostra esistenza. Scopriamo che si può essere dipendenti patologici anche da situazioni che non hanno a che fare con le “droghe illecite” e questo sta trasformando il tutto in un qualcosa che può essere compreso ed affrontato senza collocarlo all’interno di un immaginario di devianza, emarginazione e stigma. Contemporaneamente, fin troppo lentamente, comprendiamo che le malattie mentali possono esistere e si possono curare e che gli psichiatri e gli psicologi sono uomini e donne come noi che hanno studiato per risolvere problemi e non una categoria di esorcisti impotenti contro un satanasso onnipotente.

Essere classificato un “doppia diagnosi”, quindi, ci dice che abbiamo un “doppio problema” che, per quanto complesso, può essere affrontato e risolto. Proprio nella peggiore delle ipotesi, sarà migliorabile in modo eclatante a patto di fare un percorso che ci deve coinvolgere in prima persona e da cui non è escluso che possiamo uscire migliori.

Chi non è giovanissimo o, sebbene giovane, ha avuto qualche malattia di una certa importanza sa bene che è così. Qualsiasi patologia non è una bella cosa, non la si augura a nessuno ma fa parte della vita e, prima o poi, quasi tutti ci passano. L’importante è affrontarla in modo corretto e, ripeto, quando possibile, utilizzare l’esperienza per uscirne migliori.

Non dimentichiamoci che, qualunque cosa accada, nessuno di noi può essere un “doppia diagnosi”. Non siamo quello che siamo. Ciò che cerchiamo, normalmente, magari anche nel modo sbagliato, è la possibilità di stare bene (o meglio) con noi stessi e con gli altri.

Dobbiamo essere attivi trovando le strade migliori in questa ricerca che segna il percorso della nostra vita, quando siamo sani e, a maggior ragione, quando abbiamo sintomi e segni di malattia. Per questo farci aiutare da persone esperte dovrebbe essere un contributo serio che chiediamo per la nostra serenità (e per quella di chi ci sta vicino).

Riccardo C. Gatti