America Has Lost the War on Drugs. Here’s What Needs to Happen Next”. Così titola un articolo di opinione dell’ Editorial Board del New York Times del 22 febbraio 2023. 

 

 

L’articolo spiega che la storia della guerra alle droghe è una lunga storia iniziata nel 1970, quando molti soldati ritornavano dal Vietnam, dipendenti dall’eroina. Negli Stati Uniti, sotto la presidenza Nixon, venne sviluppato un sistema di Servizi, noi li chiameremmo “servizi socio-sanitari”  che non dispensavano solo metadone ma anche counseling, programmi riabilitativi ed assistenza sociale. A quei tempi, riferisce il NYT, il 70% del budget indirizzato al controllo della droga  era dedicato a questa iniziativa e solo il rimanente 30% all’azione delle Forze dell’Ordine. 

La cosa durò poco.  Scrive il NYT  “Impantanato nelle polemiche e desideroso di apparire duro con il crimine, Nixon cambiò questo equilibrio giusto pochi mesi prima di dimettersi dall’incarico, e quasi tutti i presidenti dopo di lui – da Reagan a Clinton a Bush , seguirono la rotta che aveva stabilito. In poco tempo, il rapporto di finanziamento tra misure di sanità pubblica e giustizia penale si capovolse. I bilanci della polizia e delle carceri aumentarono vertiginosamente e tutto ciò che riguardava la salute, la medicina o i servizi sociali fu lasciato appeso a pochi soldi”.

Effettivamente, quando si parla di guerra alla droga ed a Nixon, che la dichiarò, ancora oggi si pensa ad un sistema repressivo e non ad un sistema di servizi di cura. 

L’articolo continua affermando che “L’uso di droghe e la dipendenza sono antiche quanto l’umanità stessa, e storici e politici probabilmente discuteranno se la guerra alla droga sia mai stata vinta o quali fossero i suoi veri obiettivi. Nel frattempo, è chiaro che per uscire dall’attuale pantano, gli americani dovranno riportare la salute pubblica al centro dell’intervento”.

Ora, l’amministrazione Biden sta cambiando rotta e, per la prima volta, nel 2021, ha iniziato a spendere un po’ di più per cure e prevenzione, piuttosto che per la repressione.

Questo è interessante. In un certo periodo della nostra storia anche noi, da buoni alleati, abbiamo aderito alla guerra alla droga. Bettino Craxi, apparentemente sconvolgendo il pensiero libertario socialista e, se ricordo bene, rafforzando la sua posizione, dopo un viaggio negli Stati Uniti, promosse una legge, la cosiddetta Jervolino – Vassalli del 1990, che istituiva un sistema nazionale di Servizi di cura (i SERT) ma che prevedeva, oltre che pene più dure per il traffico e lo spaccio, la possibilità di pene e restrizioni della libertà personale, anche per i consumatori di droghe illecite, una serie di sanzioni che potevano arrivare sino a tre mesi di carcere (l’incarcerazione del consumatore di droga, in quanto tale, venne poi abolita con il referendum del 1993). Una posizione, quella di Craxi, per alcuni versi, quasi sorprendente anche per alcune aree libertarie del suo stesso partito ma che, probabilmente, raccoglieva un consenso, forse più profondo di quanto normalmente si immagini. Sebbene le parti più dure della legge nei confronti dei consumatori vennero poi eliminate, infatti, quell’impianto legislativo, con alcune modifiche, è rimasto in vigore sino ad oggi. 

Per un confronto con gli Stati Uniti, non sono in grado di dire quale sia, da noi, il rapporto tra risorse economiche investite per la  sanità pubblica di settore e l’azione repressiva. Senz’altro noto che il sistema di prevenzione e cura è in grande difficoltà, per errori di programmazione, ma anche per povertà di risorse certe. Troppo legato concettualmente e legislativamente a regimi speciali di emergenza di contrasto e di guerra alla droga, intesa soprattutto come droga illecita. Dopo uno slancio iniziale, è stato lasciato in una sorta di limbo, sufficiente per mantenerlo attivo, ma in posizione statica. Oggi l’innovazione e le capacità di intervento ed interazione con il territorio, sembrano più legate alla capacità ed all’intuito di singoli operatori ed a condizioni favorevoli locali, piuttosto che ad un reale mandato, una strategia univoca  ed al relativo sostegno. Se, da una parte, infatti, si insiste sull’importanza della prevenzione e dell’intervento precoce, dall’altra, in molti luoghi è chiaro che un aumento dell’utenza o della attività preventiva non sarebbe sostenibile con le risorse a disposizione. Nel frattempo una percentuale sempre più importante della popolazione carceraria si dichiara tossicodipendente. Sebbene lo stato di tossicodipendenza possa anche essere dichiarato strumentalmente, per avere alcuni benefici di legge (e quindi i numeri di chi si dichiara tossicodipendente sono più alti di chi può essere effettivamente diagnosticato come tale), vero è che, probabilmente, un numero minore di persone finirebbe in carcere per problemi legati alla droga, se venisse intercettata precocemente con programmi di prevenzione, cura ed assistenza adeguati, nel territorio dove vive. Se si pensa a quanto incide economicamente, sulla casse dello Stato, una carcerazione e l’azione penale relativa, è chiaro che non siamo di fronte ad un problema di risorse, quanto, piuttosto a dove e come queste risorse vengono investite e perchè.  

D’altra parte, anche l’Amministrazione Biden è stata probabilmente costretta, dopo anni,  ad invertire la rotta, da una situazione devastante relativa alle decine di migliaia di overdose mortali che ogni anno investono gli Stati. Negli USA si sta cominciando a pensare che, in tema di consumo di droghe, dipendenze ed overdose, è più conveniente avere un sistema di prevenzione, cura ed assistenza presente, attivo, accessibile ed efficace, piuttosto che un sistema repressivo potente e dotato, o, almeno, che il bilanciamento delle risorse in campo debba cambiare. 

L’insegnamento che se ne dovrebbe trarre è evidente ma è anche altrettanto evidente che, in questo campo, o succede una catastrofe (le overdose mortali in USA hanno superato le 100.000 annue) o nulla si muove. 

Ciò che universalmente non si riesce a fare, è ragionare in tema di droghe (N.B. non solo quelle illecite) al di fuori delle emergenze. E’, a mio parere, un enorme problema. Quando scoppia una emergenza, la situazione problematica che si dovrebbe affrontare è ormai consolidata. Trovare rimedio avviando azioni ad hoc nonché programmare e, poi, sperimentare, attuare e mandare a regime azioni concrete, conseguenti,  richiede tempi tecnici necessariamente lunghi: normalmente si tratta di anni.  

E’ interessante notare che con l’Amministrazione Biden, secondo il N.Y.T. “Il Dipartimento della salute e dei servizi umani sta concedendo deroghe agli Stati che vogliono attivare Medicaid per i detenuti prima che vengano rilasciati dal carcere. Il Dipartimento del lavoro sta finalmente applicando leggi che richiedono ai fornitori di assicurazioni sanitarie di coprire il trattamento della dipendenza allo stesso livello in cui coprono altri tipi di assistenza”. In pratica sta cercando di garantire in modo più ampio la possibilità di accedere alla cura, anche facilitando la possibilità per i medici di curare la dipendenza da oppiacei, con farmaci come la buprenorfina e spingendo la vendita di naloxone, il farmaco contro l’overdose, come farmaco da banco. 

Tutte azioni che in Italia garantiamo da anni (!) attraverso il Sistema Sanitario Pubblico i Servizi Dipendenze, le Comunità Terapeutiche e le Farmacie, anche se, probabilmente, un ragionamento sulle assicurazioni sanitarie che, ormai, interessano una parte non trascurabile dei cittadini, nel nostro Paese, andrebbe avviato. 

Rimane aperto, negli USA ed in Italia, il discorso di ciò che significa “riduzione del danno” che, purtroppo, anziché diventare uno strumento del curare e del prendersi cura attraverso una strategia complessa finalizzata alla salute, diventa troppo spesso solo un concetto, una serie di iniziative singole e molto limitate ed un simbolo utile per scontri ideologici che impediscono ulteriori approfondimenti. Vista la situazione drammatica, negli USA si auspicano maggiori iniziative di “riduzione del danno”, soprattutto come strumento per ridurre le overdose mortali ma, anche da noi, esistono persone che usano sostanze, ne sono dipendenti e non hanno intenzione di cambiare il loro stile di vita. Cosa fare con loro, per la loro salute e per limitare le conseguenze delle loro scelte, a parte cercare di motivarli alla cura, rimane un problema aperto.   

Senz’altro condividiamo con gli USA un altro problema: “There are not enough programs or trained medical professionals to treat substance-use disorders”, non ci sono abbastanza programmi o professionisti sanitari, preparati per trattare i disturbi da uso di sostanze. Il nostro vantaggio, rispetto agli Stati Uniti, essendo collegato alla accessibilità ed alla diffusione del Sistema Pubblico dei Servizi Dipendenze, è grande, ma si sta progressivamente riducendo.  Tutto il settore pubblico è in difficoltà: i medici specialisti in molti ambiti, sono pochi rispetto alla necessità ed una specialità in medicina delle dipendenze non esiste. Quando un posto in un SERD diventa vacante, trovare un medico già formato che sappia curare le dipendenze è sempre più difficile, spesso impossibile. Egualmente questo accade anche per altre professionalità, per cui una formazione specifica non esiste.  E’ una delle conseguenze di aver affrontato il tema dell’uso di droghe come una emergenza, o come una epidemia che, trovato il giusto “vaccino”, si sarebbe estinta. 

Concludendo: l’evidenza ci sta dicendo, e gli Stati Uniti sono un esempio, che pensare di risolvere i problemi le conseguenze ed i costi individuali e sociali, connessi all’uso di sostanze, attraverso la guerra alle droghe, intesa come azione repressiva, non ha successo. Senza un sistema di prevenzione, cura ed assistenza efficiente la situazione può farsi drammatica e, per lungo tempo, difficilmente reversibile. 

Il nostro vantaggio rispetto ad altri Paesi collegato inizialmente ad un miglior bilanciamento tra le risorse collegate alla cura e quelle legate alla repressione, si sta riducendo parallelamente alle difficoltà che investono il Sistema Sanitario Pubblico nel suo complesso, ma con qualche significativa difficoltà in più. 

Qui siamo, e cosa succederà dopo dipende da noi. Spero che la decisione non sia quella di “tirare avanti”, come si può, in attesa di una nuova emergenza che ci costringa, a forza, a cambiare rotta. 

Non si tratta solo, come dice il NYT di “accettare che le persone che fanno uso di droghe siano ancora membri delle nostre comunità e siano ancora degne di compassione e cura” perché, già facendolo, si disegna una categoria particolare di consumatori di sostanze, mentre l’uso di droghe lecite ed illecite, con le relative conseguenze, individuali, sociali e di costi complessivi per la società ha a che fare con scenari sempre più ampi. Per questo abbiamo bisogno di una “nuova generazione” non solo di Servizi di cura e di riduzione del danno, ma anche di pensiero. Avremmo bisogno di ripensare la nostra legislazione e di creare interventi di nuova generazione, più connessi con la promozione della salute e, quando è il caso, con il supporto educativo e sociale, anche in senso preventivo, che ad un apparato ed a logiche “speciali”, di guerra alle droghe. Abbiamo l’esperienza per poterlo fare e, nel mondo, avremmo anche molto da insegnare e da imparare gli uni dagli altri. 

Non dobbiamo, però, peccare di ingenuità. Se il nostro modo di agire ed intervenire appare sempre in ritardo, rispetto all’evoluzione di un fenomeno problematico che si vorrebbe affrontare, non è solo un caso. Attorno alle droghe, lecite ed illecite, c’è un giro d’affari enorme che genera posti di lavoro, ricchezza, investimenti e potere. Intere popolazioni ed economie, compresa la nostra, sono coinvolte direttamente o indirettamente, nelle logiche che hanno a che fare con la produzione, la vendita ed il consumo di sostanze. Il ritardo nel comprendere e nell’intervenire, genera maggior ricchezza, oltre che maggiori costi sociali. Il prezzo da pagare è legato alle conseguenze dei consumi ed è abbastanza facile (far) credere che sia pagato solo da chi li fa, da chi non è prudente, da chi è deviante, ignorante e non è consapevole, oppure è un debole o è un malato di mente: da chi possiamo stigmatizzare. Anche lo stigma ha una sua perversa utilità. Contribuisce a mascherare che questi costi, per più ragioni, sono pagati da tutti noi. 

Si tratta di logiche in cui siamo coinvolti e che non ci allarmano perché sono familiari: fanno parte della nostra vita e del nostro imprinting, anche quando le combattiamo. Sono parte di quel difficile equilibrio, tra ciò che è bene e ciò che è male. Un equilibrio che diventa ancor più difficile, quando cerchiamo di definire ciò che è giusto, da ciò che è ingiusto. Trovare un nemico e fargli guerra o trasferire il tutto allo scontro politico su posizioni semplicistiche che già si conosce che non troveranno consenso, sono modi per non pensare a tutto ciò. Il cambiamento, quando ci riguarda,  genera ansia perché muta equilibri consolidati, anche di tipo economico e di potere. Per questo la tendenza naturale è di lasciare le cose come sono, anche a costo di arrivare ad una catastrofe.

Negli Stati Uniti è già successo.

Teniamolo presente.             

Riccardo C. Gatti