cervelloPer molti terapeuti che lavorano nel settore del trattamento delle dipendenze, oggi non ci sono dubbi: la tossicodipendenza è una malattia.I motivi sono vari ma li possiamo trovare ben riassunti, in forma divulgativa, anche in Rete: “L’idea della tossicodipendenza come malattia è oggi sostenibile perché abbiamo la possibilità di definire in maniera adeguata un quadro clinico e un quadro patogenetico. Abbiamo ad esempio della documentazione scientifica abbastanza ampia sul fatto che esistono dei correlati neurofisiopatologici di alterazioni in particolari aree celebrali, tipiche delle dipendenze, non solo da oppiacei e coca, ma anche di alcool, nicotina, gioco d’azzardo, ecc.” (Dott. Dottor Emanuele Bignamini intervista su http://www.cidimu.it ).

Quanto sopra affermato porterebbe rapidamente a considerare che la tossicodipendenza sia una malattia del cervello e di competenza, quindi, delle neuroscienze … ma non tutti sono d’accordo.Il Prof. Gene Heyman (http://www.geneheyman.com/), ad esempio, basando le sue considerazioni su un’ampia varietà di fonti ha cambiato idea circa la natura della dipendenza. La sua posizione ha destato un grande interesse a livello internazionale, sia perché proviene da persona autorevole, sia perché, probabilmente, dà voce e struttura ad una percezione del fenomeno molto diffusa, anche se poco esplicitata a livello di teorizzazione.Heyman considera la tossicodipendenza come un qualcosa che fa parte di scelte individuali influenzabili da condizioni quali nuove informazioni, valori culturali e valutazioni del costo/beneficio rispetto al continuare l’uso di droghe. La sua posizione, apparentemente “fuori dal coro”, ha suscitato dibattito e reazioni. C’è chi, come  il Scientific Advisory Committee del Canadian Centre on Substance Abuse (CCSA) accusa Heyman di aver semplicemente ignorato l’evidenza proposta dalle ricerche in ambito epidemiologico, genetico, di neuroimaging e riguardanti il trattamento che dimostrerebbero come la dipendenza sia una malattia del cervello (a brain-based medical illness) spesso caratterizzata da una rapida progressione da un uso volontario di droga ad un uso compulsivo.
Quanto sostiene Heyman mette in discussione “certezze” su cui si basano ormai solidi impianti di intervento. Ma esistono anche altri solidi impianti di intervento che, pur non negando in termini assoluti la condizione patologica sottointesa dalla tossicodipendenza, si muovono secondo modelli che hanno più a che fare con i processi educativi che con i trattamenti clinici.In questi anni, il concetto di tossicodipendenza = malattia è stato ampiamente usato anche a livello di scelte politiche e legislative. Nel sistema penale, chi ha commesso un crimine ma è riconosciuto tossicodipendente gode, ad esempio, di un trattamento diverso rispetto ad altri criminali. A conferma di ciò riporto un brano di una presa di posizione del Capo Dipartimento Politiche Antidroga della Presidenza del Consiglio (Serpelloni) che sottolinea come proprio grazie alla normativa vigente “si è assistito a un aumento dell’uscita dal carcere di persone che avevano commesso reati, ma che erano tossicodipendenti, del 24,9%”. Afferma, inoltre, come sia proprio le legge Fini Giovanardi a permettere a “queste persone di fruire di un’alternativa alla pena per curare il proprio stato di malattia” (Nessuno è mai stato arrestato perchè si droga, l’Opinione delle Libertà, 10.9.2011).Purtroppo, in campo legislativo (e non solo)  non mancano ambiguità di fondo. Si sostiene,  che il tossicomane, anche se criminale, è prima di tutto un malato da curare ma, poi, il che cosa bisognerebbe curare perché e come, assume caratteri di indefinitezza quasi come se non si avesse a che fare con una malattia specifica. Il programma terapeutico, così, pur partendo da una diagnosi abbastanza univoca e classificata secondo criteri scientifici, finisce per dare spazio ad una pletora di interventi che non di rado hanno poco a che fare con la cura di una malattia del cervello (brain-based medical illness).Nasce così un dubbio che, evidentemente, non si applica solo alle condizioni carcerarie ma a tutta la questione del trattamento delle tossicodipendenze. Esiste una cura risolutiva per la malattia tossicodipendenza?Ad una prima osservazione la risposta sembrerebbe negativa. Non per nulla alla diagnosi tossicodipendenza si associano spesso i concetti di cronicità e recidività che, credo, la maggior parte dei professionisti di settore sottendono compresi in questo tipo di diagnosi. In realtà, anche in questo caso, la situazione non è così definita se si tengono conto di alcune osservazioni.Mi sembra interessante riportare, ad esempio, l’opinione espressa su Fuoriluogo nel 2002  da Freek Polak, noto psichiatra olandese, esperto nel trattamento delle tossicodipendenze. Dice Polak “Cominciamo per prima cosa ad esaminare brevemente alcuni inconvenienti che derivano dalla posizione di esperti e di opinion leader che i medici detengono: essi infatti hanno un ruolo di rilievo nel dibattito pubblico sui problemi sanitari. Ma, per ciò che riguarda il problema delle droghe illegali, le informazioni e le conoscenze mediche sono molto ristrette: molti di loro sanno poco del consumo non problematico, poiché si formano un’opinione dalla loro pratica quotidiana. Spesso non sono a conoscenza del fenomeno epidemiologico denominato “illusione clinica” (descritto da Patricia e Jacob Cohen): nel caso del consumo di droghe, la “illusione clinica” è la credenza erronea, fondata su impressioni cliniche, che la dipendenza sia una malattia prevalentemente cronica e a rischio mortale” (Freek Polak, Fuoriluogo.it, Maggio 2002).Il formarsi una opinione “scientifica” nella pratica quotidiana, dunque, presenta dei rischi legati al fatto di osservare una campo ristretto.  Più in generale ci sarebbe da chiedersi quale parte della domanda di cura fatta ai servizi per le tossicodipendenze non sia in realtà una domanda mascherata di “benefici di legge” fatta da persone che, in molti casi, non hanno bisogno di terapie perché non sono malate anche se usano droghe ma “devono” dichiararsi malate e comportarsi di conseguenza, proprio per ottenere quei benefici.E’ sempre Polak a sostenere che “I dati statistici sull’efficacia dei trattamenti per le dipendenze dipendono dai criteri di selezione per l’accesso. Se i criteri di selezione sono alti, entrano in trattamento più persone ben motivate, dunque i risultati saranno “migliori”. Se si applicano criteri meno rigidi, i risultati statistici saranno inferiori: questo è il problema della statistica per la cura della tossicodipendenza”. Probabilmente l’osservazione è giusta ma c’è da chiedersi se, oggi, le persone veramente motivate al trattamento (ed anche quelle che ne hanno bisogno, pur avendo un livello di motivazione più basso) hanno almeno la possibilità teorica di avere una risposta coerente dal sistema di cura oppure se il sistema non sia, invece, saturato da una domanda diversa che ben poco ha a che fare con la clinica.FederSerD una delle più importanti Associazioni rappresentative di settore dice, infatti, in un documento del giugno 2011: “In Italia abbiamo bisogno di più Ser.T. e di più operatori per soddisfare i bisogni dei territori”. Ne deriva che, quindi, al momento, i bisogni non sono soddisfatti e, poiché stiamo parlando di una malattia, non soddisfare i bisogni potrebbe pericolosamente significare non fornire cure adeguate e, in un circolo vizioso, aumentare la consapevolezza tecnica di cronicità rispetto a una malattia del cervello forse curabile ma non guaribile. A questo proposito, ad esempio, è noto il paragone della tossicodipendenza da eroina con il diabete, malattia curabile ma non guaribile, per giustificare il trattamento cronico con oppiacei sostitutivi.Allo stato dell’arte, comunque, il mondo tecnico – scientifico, mentre non sembra avere dubbi sulla esistenza di una malattia chiamata tossicodipendenza, pare molto più incerto sulla cura della stessa. La stessa Cochrane Collaboration, con le sue analisi, fornisce indicazioni utili sull’efficacia dei trattamenti ma, mentre esistono dati scientifici sui risultati di terapie in corso (o appena ultimate) per forme di dipendenza specifica (es. da tabacco, piuttosto che da eroina o cocaina) diventa quasi impossibile, in base alla letteratura esistente, capire se esista una qualche efficacia trattamentale anche solo a sei mesi dalla fine del trattamento.  Come se non bastasse una vorace industria della patologia scopre, ogni giorno, nuove situazioni che vengono associate alla malattia dipendenza, eliminando la parte “tossico” della parola non essendo collegate all’uso di sostanze.
Le nuove tecnologie sembrano, oggi, le prime imputate nella generazione di dipendenza (da internet, da telefonino, da videogiochi, da chat, da social network, da giochi di ruolo) mentre, stranamente, le “vecchie” dipendenze tecnologiche (da televisione, per esempio) non godono di particolare attenzione. Sono forse, stranamente, scomparse?  Intanto, assieme alla dipendenza da sesso, da cibo e da gioco d’azzardo, le possibili dipendenze “non da sostanze” sembrano espandersi, almeno a livello classificatorio, e godono quasi maggior attenzione di altre dipendenze da sostanze, questa volta legali, come alcool e tabacco che storicamente, sono quelle che hanno creato e continuano a creare i danni maggiori e più diffusi nella popolazione generale.Pur tenendo presente che ciò che è patologico crea una discontinuità nei rapporti con sé e con gli altri e nei progetti di vita, mi sembra, francamente, che ciò che viene definito dipendenza risponda a mode ed a tendenze estranee proprio a quelle ricerche in ambito epidemiologico, genetico, di neuroimaging e riguardanti il trattamento che dimostrerebbero come la dipendenza sia una malattia del cervello. Tuttavia, a mio avviso è proprio considerando settori originariamente “collaterali” o “paralleli” a quelli dell’intervento sulle tossicodipendenze da droghe che potrebbero arrivare considerazioni interessanti. La grande capacità dello sport di attivare la disponibilità della “dopamina” e delle “beta-endorfine”, sostanze chimiche endogene del cervello dall’effetto simile agli oppioidi esogeni, come eroina e morfina porta a considerare l’ipotesi conseguente che lo sport, soprattutto quello aerobico, possa attivare situazioni di dipendenza. Si è anche descritta una dipendenza da lavoro, “lavoro-dipendenza ” o “work addiction ”, laddove al lavoro sono dedicati sempre maggiori spazi sino a generare problemi  psico-sociali o fisici. C’è chi si sta occupando di “Dipendenza Affettiva” laddove un’altra persona, ad esempio il partner, diventa unico scopo di vita e chi lavora sullo shopping compulsivo. L’elenco è lungo e potrebbe continuare basta scorrere le voci proposte dai motori di ricerca per accorgersi che dal “trading on line” alla pornografia non esiste, forse, attività umana che non possa generare o, comunque, essere oggetto di una classificazione di compulsività e, quindi, di dipendenza. Quasi per gioco ho cercato la “dipendenza da fermodellismo (modellismo ferroviario)” beh … ho trovato pure quella.E’ tuttavia interessante notare che, anche nelle descrizioni divulgative, allontanandosi  dalle tossicodipendenze classiche da sostanze, viene usato con maggior frequenza il termine di “sindrome” anziché quello di “malattia”. La differenza non è da poco.Dal Dizionario Treccani – sìndrome s. f. – Nel linguaggio medico, termine che, di per sé stesso, ossia senza ulteriori specificazioni, indica un complesso più o meno caratteristico di sintomi, senza però un preciso riferimento alle sue cause e al meccanismo di comparsa, e che può quindi essere espressione di una determinata malattia o di malattie di natura completamente diversa.Ciò che mi importa considerare infatti è la possibilità di riferire la dipendenza non tanto ad una malattia del cervello (una unica malattia!?) quanto, piuttosto, ad una o più ? sindromi, intese come gli insiemi di sintomi che andiamo osservando nelle persone che consideriamo “dipendenti”.La rivalutazione della definizione della dipendenza e (della tossicodipendenza) come sindrome (per altro anche la decima revisione  dell’International Classification of Diseases and Health Problems -ICD-10- definisce la “Dependence syndrome”) e non come malattia, si stacca necessariamente da definizioni diagnostiche che danno più importanza all’oggetto della dipendenza che alla dipendenza stessa.Credo che riconsiderando la dipendenza come sindrome, potremmo anche meglio studiare e cogliere come l’uso compulsivo di una sostanza (ma anche di una situazione), non sia a monte ma a valle di una catena di possibili determinanti di carattere biologico, psicologico e sociale. Determinanti che, combinandosi assieme in uno specifico individuo, possono portare ad una compulsività tale da uscire da qualunque possibile controllo del soggetto stesso.
Ciò potrebbe spiegare perché è esperienza comune notare come, venendo a mancare uno o più degli elementi determinanti, la compulsività può attenuarsi, entrare in una fase di remissione o scomparire.Tutti gli interventi ad oggi realizzati per trattare la dipendenza da sostanze, dai trattamenti sostitutivi, alle comunità terapeutiche, ai gruppi di auto-aiuto, alle terapie psicologiche, agli interventi sociali, agli interventi educativi e formativi, tendono, direttamente o indirettamente, a cambiare l’equilibrio e la potenza degli elementi che vanno a determinare la compulsività, mutando la storia dell’individuo per sottrarlo alla patologia.Il nostro problema, quindi, è quello di meglio capire quali e quanti siano questi elementi, quali siano le loro combinazioni patogene, in relazione ad individui diversi, con quali sintomi ed eventi sentinella possono manifestarsi, quali siano modificabili, come ed in quale ordine di priorità. E’ un percorso nettamente più complesso rispetto a quello di considerare la tossicodipendenza (o la dipendenza) una malattia del cervello ma, allo stato dell’arte delle conoscenze, mi sembra ancora l’unico modo per affrontare la situazione correttamente.Potremo così un giorno scoprire che molti casi, oggi considerati affetti da una malattia del cervello considerata cronica e recidivante, sono in realtà curabili e guaribili a patto di individuare, curare, se è il caso, o “semplicemente” modificare l’equilibrio delle determinanti di un insieme di sintomi che potrebbero essere causati da malattie e, aggiungerei, da determinanti  individuali ed ambientali completamente diverse. Potremmo scoprire che la tossicodipendenza (e la dipendenza) non è  una malattia e, forse, nemmeno una sindrome ma un sintomo: nel linguaggio medico, ciascuno dei fenomeni elementari con cui si manifesta lo stato di malattia,  in una visione più estensiva l’indizio, segno di qualcosa che sta per manifestarsi o è già in atto.

Riccardo C. Gatti 18.9.11