Come ogni anno, alla chiusura delle scuole ed all’approssimarsi del 26 giugno, Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droghe, indetta dalle Nazioni Unite nel 1987, le cronache locali sono ricche di articoli con considerazioni sulla chiusura di progetti di prevenzione su droghe e dipendenze.
Quest’anno una particolare considerazione è data alle iniziative sulla dipendenza da gioco d’azzardo, da poco insidiate, in popolarità, da quelle sulla dipendenza da smartphone ed altri mezzi tecnologici.
Lo schema di queste notizie è sempre il medesimo: la situazione è gravissima, ci sono sempre più “ragazzi” dipendenti e vengono descritti alcuni sintomi dall’esperto di turno (“Ansia, isolamento, cali di attenzione, disturbi del sonno”) che, guarda caso, sono così aspecifici da andar bene per qualunque situazione. Si passa, poi, alla esposizione di numeri sulla gravità del problema ed alla descrizione delle azioni preventive che, di solito, riguardano direttamente i “ragazzi”, ma anche gli insegnanti e i genitori. Se è prodotto materiale filmato, dai destinatari degli interventi, viene presentato. Cambiando l’ordine degli argomenti dell’articolo, il risultato non cambia: l’iniziativa è presentata come un modello positivo di ciò che viene fatto.
C’è però un problema che mi sembra utile considerare. Questo tipo di iniziative di prevenzione delle dipendenze si susseguono da decenni e, da decenni, vengono rappresentate come modelli positivi. Come è possibile, allora, che gli stessi articoli descrivano la situazione come grave e, quasi sempre, in peggioramento? Cosa non funziona? È il modo con cui i media descrivono il tutto, oppure in questa miriade di interventi, molti lasciano il tempo che trovano? Faccio notare che la maggior parte di queste attività, in un modo o nell’altro è, direttamente o indirettamente finanziata con il denaro dei cittadini. Addirittura lo Stato, quando li finanzia, prevederebbe il monitoraggio delle iniziative.
Eppure, nella maggior parte dei casi, nessuno conosce realmente l’efficacia della miriade di iniziative messe in atto. Salvo casi molto particolari, si sa, se va bene, che i destinatari hanno mostrato interesse ed hanno appreso le nozioni trasmesse. Niente di più.
Spero, comunque, che a sbagliare siano i media perché, se da cinquant’anni la situazione delle dipendenze patologiche tra i giovani fosse in costante grave peggioramento, non ci dovrebbe nemmeno più essere un giovane “sano” e, per fortuna, non è così.
Ma se, prima o poi, ci preoccupassimo di misurare in modo strutturato l’efficacia reale delle azioni preventive messe in atto, potremmo passare da una sorta di pillolone ansiolitico a qualcosa in grado di migliorare davvero la situazione.
Per ora siamo più preoccupati delle rassicurazioni che dei risultati.
Riccardo C. Gatti