Solo a luglio dello scorso anno Nora Volkow che dirige il National Institute on Drug abuse USA, pubblicava un articolo sul suo blog ufficiale intitolato “Tutti meritano un trattamento per le dipendenze che funzioni, compresi i detenuti”.
Nell’articolo, dedicato alla scarsa accessibilità di trattamenti efficaci per le dipendenze da oppiacei per le persone in carcere o dimesse dal carcere a fine pena, era riportata anche la frase: “La Food and Drug Administration ha approvato tre farmaci per il disturbo da uso di oppioidi: metadone, buprenorfina e naltrexone. Tutti e tre sono efficaci, sicuri e salvavita. Ma sono tristemente sottoutilizzati, in particolare nei contesti di giustizia penale”.
Già sappiamo che nel contesto USA l’accessibilità alle cure non è così semplice, per chi non può pagarsele o non ha una buona assicurazione, ma il fatto che i trattamenti, per la dipendenza da oppioidi, con metadone, buprenorfina e naltrexone (da noi diffusi, accessibili e gratuiti ed erogati in ogni Servizio Dipendenze) siano “tristemente sottoutilizzati” negli USA, mette i rilevo una enorme carenza proprio nell’offerta di trattamenti per una situazione di dipendenza che, da anni, sta provocando una strage.
Vero è che molti decessi per overdose riguardano anche persone che non sono dipendenti da oppioidi e che assumono il fentanyl a loro insaputa, credendo di consumare cocaina, metamfetamina o ad altri farmaci (contraffatti) ma, in generale, la carenza di accessibilità a trattamenti efficaci che perdura da anni negli USA, nonostante la situazione, rimane non comprensibile.
Attualmente, Trump ha dichiarato una guerra al Fentanyl, un oppioide che, prodotto e distribuito clandestinamente, provoca decine e decine di migliaia di morti per overdose, ogni anno negli USA. Probabilmente, anche per evitare dazi penalizzanti, Canada e Messico si sono, al momento, schierati con gli USA, con un impegno straordinario contro la produzione e la esportazione di questo oppioide.
Supponendo, però, che questa azione sia davvero efficace, potrebbe sollevare un problema di cui nessuno, ancora, parla. Se si verificasse una reale carenza della sostanza sul mercato illecito, quale potrebbe essere il destino di chi ne è dipendente, considerando il “triste sottoutilizzo di cure efficaci” e la situazione generale di accesso ai trattamenti negli USA ? È possibile pensare che la lotta al fentanyl lasci implicitamente aperta la strada allo switch del mercato clandestino e dei suoi clienti verso altre droghe e, eventualmente, ad oppioidi diversi?
In questo caso, non saremmo di fronte ad un nuovo impegno degli USA e degli alleati contro la diffusione di droghe e le relative conseguenze, ma ad una azione limitata al contrasto della diffusione del fentanyl, considerata un atto terroristico.
Ha senso, tutto ciò o, per quanto riguarda droghe e dipendenze, si potrebbero verificare ulteriori effetti problematici, con anche il rischio di ripetere, negli USA, (sebbene in un modo diverso, visto il campo di azione focalizzato su una unica sostanza) lo stesso errore della guerra alla droga dichiarata da Nixon negli anni ‘70: grande investimento per la repressione, ma scarso impegno per rendere accessibili e diffusi gli interventi di cura e di prossimità?
Non solo, la posizione USA potrebbe trascinare gli alleati ad aumentare le spese per la repressione dei traffici e laddove, come da noi, esiste un grave problema di debito pubblico, un maggior investimento economico ed organizzativo nella repressione, potrebbe limitare le risorse disponibili per altre iniziative. Non parlo di un limite assoluto, ma di una reale difficoltà nell’investire le risorse e le energie necessarie per adeguare, anche organizzativamente, il Sistema di intervento, proprio ai cambiamenti degli scenari in atto, con la diffusione di nuove sostanze e relativi mix che rendono prevenzione, cura, riabilitazione e lavoro di prossimità, sempre più complessi.
Riccardo C. Gatti
Precursori del Fentanyl: dopo la Cina, l’India?