Mentre la cocaina ha, ormai, saturato il mercato e arriva di continuo a tonnellate, il crack sta progressivamente dilagando nelle città e pone sempre più problemi. Non si tratta solo di salute fisica e mentale ma anche di atti folli ed impulsivi altrimenti poco spiegabili.
Molti farmaci che hanno la capacità di alterare la mente, come GHB, Clonazepam, Pregabalin, Ketamina e analoghi, escono dai circuiti della cura e sono ormai, ampiamente e costantemente, disponibili nel mercato dello spaccio.
Per alterarsi, c’è una sorta di escalation verso sostanze sempre meno costose e sempre più potenti, in grado di creare dipendenza e, spesso, usate in mix tra loro.
Eppure, anche fonti autorevoli, parlano poco di tutto ciò, preferiscono focalizzare l’attenzione sui telefonini e sulla dipendenza da internet, un po’ come quando, nel secolo scorso, agli albori della diffusione dell’eroina, venivamo allertati sulla dipendenza dalla televisione. È come se, al di fuori di gravi fatti di cronaca, l’attenzione venisse continuamente spostata (a scopo preventivo?) da pericoli reali a pericoli potenziali, oppure da situazioni diffuse e pesanti ad altre che, pur preoccupanti, incidono meno sulla vita e sulla salute dei cittadini.
Gradualmente il consumo di droghe diventa, così, un problema, solo quando lo spaccio si svolge in modo disordinato o disturbante e, quindi, deve essere spostato altrove, oppure se si vogliono ridurre gli incidenti stradali.
Per il resto, una assunzione di droghe viene considerata pericolosa come stare troppo sui social, fare una giocata alle slot, o guardare video porno in rete.
Ma questo ha una conseguenza.
Sino a quando l’uso di sostanze rimane integrato e “invisibile”, nessun problema, ma quando diventa una dipendenza e genera conseguenze, di qualunque tipo, per cui una persona vuole interromperlo, in modo definitivo, la situazione cambia.
Lo Stato e le Regioni finanziano una miriade di azioni finalizzate a indirizzare alla cura ambulatoriale persone che hanno dipendenze comportamentali, reali o presunte, che vanno ad unirsi a chi è “costretto” a rivolgersi, ai medesimi ambulatori, in seguito a segnalazioni per il possesso di droga o a percorsi di area penale. Tutto ciò contribuisce a saturare l’offerta di cura ambulatoriale di Servizi Pubblici, nati per la cura delle dipendenze da sostanze, ma che, caricati di sempre maggiori incombenze, ma non delle risorse, del personale e dell’organizzazione, utili per affrontarle appropriatamente, rischiano di diventare semplici contenitori di cronicità o parte di sistemi controllo sociale.
Inoltre, in molte parti del Paese, quasi non è prevista la possibilità, all’interno di un percorso strutturato, di effettuare ricoveri ospedalieri specializzati, per chi volesse affrontare interventi di disassuefazione e di approfondimento diagnostico, in un contesti più protetti e sicuri di quello ambulatoriale. Tutto rimane così obbligatoriamente confinato a ciò che il singolo ambulatorio della zona di residenza può fornire, salvo un eventuale invio in comunità che, però, ha caratteristiche specifiche e non è indicato per tutti.
Il concetto di indurre una reale guarigione da una dipendenza patologica da sostanze, diventa, perciò, sempre più astratto ed anche i farmaci a disposizione di chi cura sembrano studiati, soprattutto, per un indefinito uso cronico.
È come se, attorno a chi usa droghe, si fosse costruito un contenitore da cui è molto difficile uscire, legittimato da un concetto spesso enunciato da quegli esperti di settore che definiscono, la dipendenza patologica, come una malattia cronica e recidivante, senza considerare che molte malattie sono tali, sino a quando non si trova il modo appropriato di curarle.
D’altra parte, da sempre, non esistono organismi che si preoccupano di rilevare e rendicontare l’esito degli interventi di SERD e Comunità e, anche questo, a pensarci bene, non è un buon segnale.
Riccardo C. Gatti