Ecco un titolo del Messaggero dell’11 marzo 2022 – I contagi salgono ancora. I virologi: “Il covid circola così ci roviniamo l’estate” -. L’articolo si chiude con – “La sfida continua perché nonostante siamo al terzo anno di pandemia, le lezioni, anche le più banali, non sono state imparate (…) tutti gli Stati Uniti hanno tolto la mascherina dai luoghi chiusi è chiaro che è una mossa suicida”.

Sono parole di Walter Ricciardi, un importante consulente del Ministro della Salute, che riferendosi all’allentamento delle misure in atto in diversi Paesi europei, sostiene, appunto, come da titolo, che “corriamo il rischio, di questo passo, di rovinarci l’estate mentre invece si poteva gestire meglio”.

Ma l’articolo non è in prima pagina, è a pagina 14. E, infatti, dove dovrebbe essere un articolo che parla di una estate potenzialmente rovinata: qualcosa che fa pensare ad amori stagionali che finiscono prima di nascere, a una movida notturna di poco conto, al desiderio di tornare a casa, in fretta, dicendo: meno male che è finita?

Qualcosa di simile è già successo, solo qualche mese fa, quando a fronte di ospedali in sofferenza e più di trecento morti ogni giorno per covid e migliaia di persone ricoverate e sofferenti, il problema, rappresentato dai media, sembrava soprattutto quello di non rovinare il Natale.

Ma ora abbiamo una nuova emergenza, ancor peggiore, che ha sostituito la “vecchia”. Il rischio è quello di una Guerra Mondiale. Altro che estate rovinata. Per la guerra sono già cambiati gli esperti e gli opinionisti. Anche se qualcuno rimane valido per tutte le stagioni, si capisce che siamo in una nuova era televisiva e, probabilmente, non solo televisiva. Ma, in ogni caso, un argomento ritorna: siamo stati imprevidenti: dovevamo pensarci prima.

Il “pensarci prima”, sta diventando un vero tormentone e dimostra una cosa sola: non siamo capaci di farlo. Dal rischio idrogeologico, all’inquinamento, al clima, alle malattie, alle guerre, alla mobilità, all’organizzazione del lavoro, alla droga, e gli argomenti potrebbero essere molti altri, pur dotati di mezzi potentissimi, rispetto ad altre epoche, ci attiviamo solo quando siamo in emergenza, e fino a quando l’emergenza non si spegne, sostituita da un’altra. Così siamo diventati bravissimi ad affrontare le emergenze, salvo, poi, abbassare la guardia appena la situazione sembra migliorare. Ogni volta ci raccontiamo che dalla situazione ne usciremo più forti, in base all’esperienza, più uniti; che non ripeteremo gli stessi errori.

Ma non è così. Lo stesso fatto che l’emergenza della situazione ucraina, abbia oscurato tutto il resto, ne è un preciso indicatore. Addirittura di covid, nei media, non si parla quasi più, anche se non è affatto sparito e, ogni giorno, richiede un tributo di vite superiore, anche a quello di una guerra.

La situazione droga, uso di sostanze psicoattive e comportamenti additivi, per anni è stato un cavallo di battaglia, contemporaneamente, per le guerre (alla droga) e per le emergenze mediatiche. Su di queste si sono costruite strategie imperfette, spesso deboli, e interventi in grado, soprattutto, di riparare i guai peggiori. Ma senza emergenza, senza gente che muore per strada in overdose, la tensione all’intervento di settore è progressivamente diminuita, confinata nell’ambito di mantenere l’esistente, per poi ridimensionarlo, dopo aver costruito sistemi di osservazione ben separati tra loro: droghe, alcol, tabacco, gioco d’azzardo, farmaci … in modo che nessuno abbia il quadro completo della situazione.

In un Paese più povero, alle soglie di una rivoluzione, portata dalle droghe sintetiche, con popolazioni sempre più “addestrate” ad aderire acriticamente a nuovi trend di consumo, è possibile, anzi, probabile, che la situazione peggiori. In fondo ci sono già nuovi profeti che spiegano che le droghe fanno parte della storia dell’uomo e che, sapendole gestire, possono dare benefici. Peccato che, guardando la storia, dimentichino come, la loro diffusione come “bene di consumo”, così come è ai giorni nostri, abbia sempre provocato danni enormi per la salute delle persone e che danni ancor più grandi si creeranno, in una società che produce sostanze sempre nuove e potenti negli effetti.

Quest’anno abbiamo avuto una Conferenza Nazionale sulle droghe, che ha lasciato ben poca traccia, ne avremo una sull’alcol, che è difficile possa avere un diverso esito. Con urgenza rinnoviamo i fondi progettuali per chi si svena con il gioco d’azzardo, basta che tutto resti così come è. Abbiamo uno spasmodico bisogno che i mercati crescano, che il danaro circoli. Ed è già tanto: le emergenze, come ho detto, oggi, sono altre. Facciamo piccole cose e ci accontentiamo, ma così facendo non siamo diversi da chi usa droghe e sceglie un rinforzo più piccolo e immediato, rispetto alla costruzione di un futuro positivo, inteso come buona salute, buone relazioni e successo nello sviluppo dei propri progetti di vita. Insomma, pensiamo che quello che dovevamo fare lo abbiamo già fatto, ora i problemi sono altri e se le forze in campo, Servizi Dipendenze e Comunità, sono in sofferenza e vengono ridimensionati, ci consoliamo, pensando che tutto il sistema sanitario e sociosanitario, pure soffre. Mal comune …

Quando sarà il momento, scoppierà una nuova emergenza. Sarà la riscoperta di un problema che avevamo dimenticato e che, nel frattempo, si sarà ulteriormente consolidato ed espanso. Qualcuno lo negherà, altri si allarmeranno, accuseranno qualcuno o qualcosa della situazione.

Cercheremo di circoscriverlo, di delimitarlo ulteriormente, come stiamo facendo ora, nell’ambito dell’intervento sulla salute mentale: chi si droga ha un “disturbo”, ormai si chiama così, della sfera psichiatrica e, se non lo ha perché sceglie di consumare sostanze, lo avrà per il loro effetto. Solo ad emergenza dichiarata, ci accorgeremo che, a livello di Servizio Pubblico, avevamo sbagliato a ridimensionare il settore, con la scusa della “integrazione” delle competenze e degli interventi, tra settori diversi, per altro, tutti, con risorse già insufficienti.

Pensandoci bene il tutto è un po’ strano, perché la persona che ha una dipendenza patologica, agisce in piccolo, con dinamiche molto simili a quelle con cui, nel mondo si affrontano collettivamente questioni più grandi, anche a costo di farsi molto male e di dirsi, dopo, che tutto è stato frutto di sottovalutazione, imprevidenza o, addirittura, follia.

Mentre scrivo, sullo smartphone mi arrivano due notizie, contemporaneamente: le sirene di allarme aereo suonano a Kiev e, a Milano, si può andare a teatro a vedere 7 spose per 7 fratelli.

In tv vedo l’immagine di un soldato che bacia la sua ragazza, prima di andare al fronte.

Intanto le infezioni da Covid ricominciano a crescere ed ho appena letto i dati dei nostri Servizi Pubblici Dipendenze che, solo a Milano, in un anno, vedono almeno 9000 persone, ma vorrebbero fare di più. Coincidenze. Mi dicono che la vita, comunque, va avanti ma, forse, potremmo organizzarci per renderla migliore, per chi ce la fa e per chi non ce la fa.

Già, perché di fronte alle cose negative che accadono, nessuno vuole ammettere che ne è in parte, sebbene in modo diverso, corresponsabile; non lo ammette per concludere che, tanto, nulla può fare, per costruire un cambiamento. Che abbia ragione Ricciardi, quando dice che “le lezioni, anche le più banali, non sono state imparate”. È un concetto che, probabilmente, travalica la pandemia in sé. Senz’altro collettivamente impariamo poco dalla storia, almeno quanto poco, individualmente, ricaviamo dall’esperienza, e quando qualcosa diventa evidente, possiamo sempre negarlo, anche a costo di diventare negazionisti di noi stessi.

Chissà quante volte, singolarmente e collettivamente, abbiamo pensato che potremmo fare qualcosa di più di tentare, di volta in volta, di non rovinarci l’estate o il Natale, ma poi tendiamo ad agire come abbiamo sempre fatto.

Ci sono fin troppi segnali che ci dicono che proprio questo è il momento di parafrasare una frase di John F. Kennedy: non chiediamoci cosa il nostro mondo può fare per noi; è il momento di chiederci cosa noi possiamo fare insieme, per il nostro mondo.

Non dimentichiamoci che, stiamo già vivendo una transizione da società post industriale a società interconnessa, che ha provocato un vuoto culturale non indifferente e dove si è sviluppata una pandemia disastrosa che non è ancora finita. Adesso si apre il rischio di un conflitto mondiale. Qualcuno, scherzando, dice che manca solo una apocalisse zombi, per completare il quadro.

Il tutto aprirebbe alla necessità, che già c’era, di ricostruire relazioni, obiettivi e confini, in un modo nuovo, in cui già siamo, pur con legami con quello vecchio che, soprattutto per le cose negative, non riusciamo ancora a scindere.

Ma siamo davvero in grado di impegnarci per riprogettare collettivamente il nostro modo di vivere e di reazionarci con gli altri e per mettere assieme pensiero, esperienza ed energie, senza mentire a noi stessi? Di fare, cioè, quelle cose che si chiedono ad una persona affetta da dipendenze patologiche, per uscire dalla sua condizione? Oppure siamo anche noi affetti da una dipendenza patologica per una costruzione del mondo i cui i limiti ed effetti dannosi sono evidenti. Usciremo dal “tunnel” di questa dipendenza?

Sono domande importanti. Spesso, nel mio lavoro, sulle dipendenze patologiche, segnano il vero discrimine tra equilibrio e follia, tra benessere e sofferenza cronica.

Riccardo C. Gatti