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Nella foto “Cannabis” nello scaffale di un Supermercato nella provincia milanese. 

 

 

Ho iniziato a lavorare nel SERT, un Servizio Pubblico per le Tossicodipendenze (negli anni ‘80 si chiamavano NOT – Nuclei Operativi Tossicodipendenze), in un Comune della cintura Milanese. Ai tempi, in quel territorio, ogni tanto, andavano a fuoco negozi e si diceva che fosse perché non pagavano il pizzo. Facendo un conto sui soldi che il SERT toglieva alle organizzazioni criminali dello spaccio (le stesse del pizzo sui negozi) per i pazienti in cura che non acquistavano più droga (o ne acquistavano di meno), mi sono spesso chiesto perché non andasse a fuoco anche il SERT.

Nel Gennaio 2016 The Guardian ha pubblicato un articolo dal titolo “Problem drinkers account for most of alcohol industry’s sales, figures reveal” https://www.theguardian.com/society/2016/jan/22/problem-drinkers-alcohol-industry-most-sales-figures-reveal , dove si sostiene come i dati dimostrino che il 60% delle vendite di alcolici nel Regno Unito sia collegato ai bevitori “a rischio” o a coloro che consumano alcolici a livelli pericolosi. Uno studio in corso della Università di Sheffield aiuta a stabilire i valori di questi consumi: 38.2% del valore di alcolici venduto è attribuibile a bevitori a rischio ed il 24,5% a bevitori che fanno consumi pericolosi di alcol.

Nell’articolo è citato anche un recente report Australiano che ha dimostrato dati simili. La Foundation for Alcohol Research and Education ha rilevato che i migliori clienti dell’industria degli alcolici sono i 3.8 milioni di Australiani che consumano più di quattro drink standard al giorno: il doppio di quanto previsto dalle linee guida nazionali come consumo sicuro. Sono il 20% dei bevitori sopra i 14 anni, ma bevono il 74.2% di tutto l’alcol consumato. L’industria li definisce “super consumers”.

E’ difficile dire se anche in Italia esistano situazioni analoghe, ma senz’altro i consumi di alcolici in modalità binge ed eccessivi sono consistenti. Solo in Lombardia, ad esempio, si stima che quasi un milione di persone si sia ubriacato almeno una volta nell’ultimo anno (SIAPAD).

Allo stesso modo sarebbe interessante capire chi genera il grande flusso economico connesso al gioco d’azzardo. Sono i “giocatori patologici”, oppure chi rischia di diventarlo? La situazione non è di scarso interesse. Diciamo che, un po’ come accade per l’alcol, l’industria del gioco sembra interessata al fatto che si intervenga decisamente sui giocatori (già) patologici ma, ovviamente potrebbe essere più indulgente con i clienti migliori. Quelli che non sono diagnosticabili come patologici ma … sono dei buoni giocatori.

Il mercato delle droghe, sebbene illegale, è pur sempre un mercato. Anche in questo caso, non di rado, chi è tossicodipendente e si rivolge ad un servizio di cura, spesso ha già compromesso gran parte delle sue risorse economiche.

Da sempre, parlando di droghe e dipendenze patologiche, gioco compreso, indugiamo su temi etici. Anche in tema di proibizionismo ed antiproibizionismo ci comportiamo allo stesso modo. Sono i più giovani che, spesso, rilevano le contraddizioni di una società che vieta il fumo di cannabis e lucra su quello delle sigarette oppure che dibatte su cosa sia “pesante o leggero”, lasciando in sospeso il tema dell’alcol, ammantandolo di cultura e tradizione.

Difficilmente percepiamo quanto sia la questione economica, più che quella etica o inerente la salute, a dettare le regole del gioco. Esiste un’economia del proibizionismo che si contrappone a un’economia della legalizzazione. A seconda del prodotto e delle contingenze economiche è possibile che un mercato proibito renda più di un mercato legale e viceversa.

Facendo i conti, ovviamente, non si deve considerare solo il prodotto finale in vendita ma anche l’indotto e gli effetti economici collaterali (trascinamento per la vendita di altri prodotti legali o illegali).

Dal punto di vista economico l’ideale è che, per quanto riguarda le droghe e le sostanze di possibile abuso, ce ne siano contemporaneamente di proibite e di legalizzate. Esisteranno quindi profitti connessi alle sostanze illegali, investimenti per la repressione dei traffici illegali e per il mantenimento del sistema giudiziario di accusa e di difesa dei rei, per la loro eventuale incarcerazione e per la gestione sia dei percorsi penali che di quelli riabilitativi. Contemporaneamente chi si occuperà di prevenzione e cura riceverà risorse per occuparsi sia dei tossicodipendenti da sostanze legali che da quelle illegali. Nel frattempo il mercato legale lavorerà ai fianchi tutti quelli che avranno soldi da spendere per l’acquisto di ulteriori prodotti che li porranno, comunque in una situazione di rischio per la salute fisica e psichica. La persona affetta da dipendenza patologica abusa normalmente di sostanze lecite e illecite. Allo stesso modo è difficile trovare giocatori d’azzardo patologici che non abusino anche di qualche sostanza.

Anche se la cosa non è pianificata e determinata volontariamente, i mercati legali ed illegali non sono competitivi tra loro, piuttosto sono sinergici quando si rivolgono ai medesimi clienti. Le persone che usano sostanze illegali, non di rado abusano anche di quelle legali e quanto più vanno verso la patologia quanto più i consumi aumentano, fino a quando le risorse non si esauriscono o situazioni incidentali li fermano. La stessa cosa accade per il gioco. La diffusione del gioco legale avrebbe dovuto fermare quella del gioco illegale. Oggi abbiamo entrambi ed entrambi, ovviamente, cercano clienti.

Nel triangolo “politico-economico-industriale” che per ragioni diverse unisce azioni di mercato, azioni repressive ed azioni preventive-curative, è quest’ultimo polo di azione che normalmente rimane in sofferenza, per una ragione precisa che è anche la risposta che mi sono dato al perché se andavano a fuoco i negozi che non pagavano il pizzo, non andasse a fuoco anche il SERT.

Il SERT finiva per raccogliere soprattutto i soggetti che avevano ormai esaurito tutte le risorse economiche loro e della loro famiglia. Coloro che, per ragioni diverse, non erano “riciclabili” nell’ambito dello spaccio o della prostituzione finivano per non essere più una fonte di reddito per le organizzazioni criminali. Il fatto che qualcuno si occupasse di loro, quindi, aveva una funzione “assistenziale” che diventava ansiolitica a livello sociale, in modo che non si creassero altre azioni di resistenza e di contrasto al mercato della droga e a chi lo conduceva, spinte dall’allarme sociale. Non potendo realmente contrastare più di tanto i mercati leciti o illeciti, di fronte a situazioni che diventano emergenze (ma non prima !), il consenso politico si trova proclamando un sostegno a prevenzione e cura.

Nel tempo le cose non sono cambiate di molto. Per ragioni diverse il sistema preventivo – terapeutico – riabilitativo del Paese è sempre rimasto nella condizione di riuscire ad arginare fenomeni ormai diffusi e consolidati, ma senza potersi “allargare” verso azioni di prevenzione ed intervento precoce in grado di cambiare la diffusione dei fenomeni stessi. Anche oggi, per il gioco patologico accade qualcosa di simile. I SERT si prendono cura dei giocatori patologici ma, per farlo, suddividono ulteriormente la loro capacità operativa. Aumentano i pazienti, il gioco patologico è inserito nei livelli essenziali di assistenza del Servizio Sanitario Pubblico ma … nessuna risorsa in più è assegnata ai Servizi di cura. Le norme economico finanziarie in atto ne ridimensioneranno ulteriormente il potenziale nei tempi a venire.

Agli stessi operatori è stato fatto assimilare che, comunque, i dipendenti patologici sono persone croniche e recidivanti (per definizione) per i quali ben poco si può fare se non ridurre il danno di una malattia inguaribile e accompagnarli per tutta la vita gestendone la cronicità. Il tutto come risultato di studi che si basano soprattutto sui soggetti che si rivolgono a questi servizi di cura quando ormai hanno una situazione già cronicizzata da anni.

Ma la cronicità è un punto di arrivo, non di partenza. Intervenire prima richiederebbe un insieme di strategie ed azioni differenti dalle attuali, a livello culturale e di comunicazione ma anche di ricerca, studio, prevenzione ed organizzazione dell’intervento. In pratica occorrerebbe intervenire in modo diverso, con unità di offerta organizzate diversamente, su diversi livelli di intensità di cura o, comunque di azione. Occorrerebbe, quindi, un sistema più dotato di risorse e, quindi, più costoso. Occorrerebbe anche muoversi a livello farmacologico, per individuare nuove possibilità di intervento che non generino, a loro volta, altre dipendenze, sebbene maggiormente controllabili di quelle originarie.

Abbiamo a che fare con soggetti relativamente giovani, molti dei quali potrebbero giovarsi di un intervento più appropriato. Se il sistema riuscisse ad intervenire precocemente (un po’ come avviene per altre patologie pericolose per cui organizziamo anche attività di screening per l’intervento precoce), quindi, avremmo meno persone malate, con disturbi mentali ed in stato di cronicità. Costerebbe di più ma, senz’altro, non di più di altri interventi diagnostici e farmacologici, spesso eseguiti in fase terminale di malattia, con risultati tanto costosi quanto incerti.

Occorrerebbe anche che i Servizi per le dipendenze o singoli specialisti non fossero gli unici interlocutori per persone che, in fasi diverse di una situazione a rischio di un progressivo deterioramento, si interfacciano con un sistema sanitario e sociosanitario che indaga altri fattori problematici per la salute psicofisica ma riesce a scotomizzare dipendenza e abuso di sostanze, comprese quelle iatrogene da farmaci su cui, almeno, una certa attenzione dovrebbe avere.

La dipendenza è una malattia grave, in taluni casi mortale, se si cronicizza è senz’altro invalidante quindi non si capisce perché non impegnarsi, come per altre patologie, per far sì che la cronicizzazione avvenga in un numero minore di casi. O meglio, non si capisce sino a quando non si fanno alcune considerazioni economiche. Sulle persone a rischio di dipendenza patologica e sulle loro famiglie si riversa l’interesse di investitori leciti ed illeciti che, a loro volta, per ragioni diverse producono lavoro (illecito ma anche assolutamente lecito) per altre persone.

Tutelare gli uni e gli altri non è possibile e le politiche di intervento si barcamenano in una situazione complessa. La soluzione come sempre è uno strano equilibrio tra divieti e permessi, tra azioni di contrasto e iniziative da “monopolio di stato”. Condendo il tutto con un po’ di cure gratuite ed un po’ di prevenzione difficilmente risolviamo i problemi. Il dubbio che, comunque, ci siano più interessi che congiurano per non risolverli mai e nemmeno per arginarli seriamente, rimane. Gli interessi economici sono enormi e le persone che sono a rischio di patologia ne sono il motore primario.

Quando si inizia un percorso che porta verso l’uso o l’abuso di alcol, di droghe o di farmaci non prescritti sarebbe molto meglio tener conto di tutto ciò. Il rischio, infatti, è che nessuno venga in nostro aiuto precocemente. La nostra strada di “super consumers” potrebbe essere già pre-programmata e progressiva.

Riccardo C. Gatti