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STIGMA – Marchio che anticamente veniva impresso sul corpo degli schiavi e dei malfattori (Grande Dizionario Italiano di GABRIELLI ALDO – Hoepli editore)
Chi ha una dipendenza patologica ha anche uno STIGMA? Sembrerebbe proprio di sì. Se ascoltiamo i tossicodipendenti ma anche gli alcolisti, i giocatori o i malati di sesso … dicono di riconoscersi tra loro, anche nel tempo, quando i sintomi sono in remissione ma i segni della malattia rimangono. Non esistono prove scientifiche di queste affermazioni ma senz’altro, che si veda o no, lo Stigma esiste. Chi ha una dipendenza patologica, a suo modo, è schiavo e chi è tossicodipendente, in particolare, è pure un malfattore, visto che drogandosi commette un illecito.
Gli antichi criteri per applicare lo STIGMA, dunque, sono presenti. Come se non bastasse, tanto per appesantire la cosa, c’è chi ricorda che l’acquisto di droga sovvenziona le organizzazioni mafiose in una sorta di “concorso esterno”. Si toglie, così, al tossicomane anche quella considerazione di vittima che, invece, è spesso attribuita al giocatore patologico. Un po’ come nelle carceri, esistono, perciò, le gerarchie di STIGMATIZZATI. Dietro a tutti, ai livelli più bassi della gerarchia, sono gli eroinomani emarginati, soprattutto se alla dipendenza associano altre patologie. Appena sopra di loro stanno gli alcolisti di strada. Eroinomani ed alcolisti socialmente inseriti, ovviamente, stanno più in alto, quasi alla pari dei cocainomani di livello (a patto che non dimostrino patologie mentali evidenti). Nell’empireo i dipendenti da cannabis (confusi nel grande numero di semplici consumatori) che, nella gerarchia, finiranno per perdere lo stigma, superando anche i tabagisti, all’interno di una organizzazione sociale che percepisce il potenziale profitto di un nuovo monopolio.
Ma chi mantiene lo stigma e lo può mostrare, ha dei vantaggi? In alcuni casi sì. Per esempio se compie reati può avere benefici di legge che, altrimenti, non avrebbe. In alcuni casi non entra in carcere, oppure sino a sei anni di pena residua (quindi anche per reati discretamente gravi) può essere scarcerato per curarsi in comunità o anche a casa. Certo l’applicazione di queste possibilità non è frequente ed il “sistema” non funziona nel migliore dei modi ma … sono possibilità che esistono e, talvolta, (anche qui le gerarchie esistono) un buon avvocato motivato e deciso può fare la differenza. Tutto bene, quindi? No, perché lo STIGMA è un marchio che può dare benefici all’interno del circuito costruito ad hoc per i tossicomani emarginati (attivando supporti assistenziali altrimenti non ottenibili come housing sociale,  borse lavoro o altre iniziative del genere) ma all’esterno è solo un danno, quasi come se gli investimenti di settore fossero fatti soprattutto per mantenere il tossicomane perennemente all’interno di un contenitore, elastico fin che si vuole, ma chiuso.
La stessa definizione di tossicodipendenza fa parte dello stigma cui contribuiscono (inconsapevolmente?) scienziati e tecnici del settore proclamando che la tossicodipendenza è una “malattia cronica e recidivante”. Eppure sanno come sia facile associare a queste affermazioni il concetto di inguaribilità,  anche se esistono studi che dimostrano come molti tossicodipendenti escono dalla patologia da soli.  Per altre patologie senz’altro “croniche e recidivanti” questo termine non viene usato o viene usato con molta delicatezza, per gli effetti deleteri e stigmatizzanti che ha.
Per quanto riguarda la cura, il risultato dello stigma è chiaro.
Il Sistema Sanitario Nazionale, seppur in profonda crisi economica, è in grado di investire, in poco tempo, centinaia di migliaia di euro per curare una persona giovane con una patologia grave, potenzialmente invalidante e che la espone a rischi per la vita: pensiamo, ad esempio, ai costi per un trapianto d’organo e a tutto ciò che ne consegue. Per una persona più avanti in età si può spendere moltissimo anche con una diagnosi certamente infausta, solo per ottenere il prolungamento della vita di qualche settimana, indipendentemente dalla qualità della vita stessa. Apparentemente, per la cura della dipendenza, è predisposto un sistema dedicato, molto accessibile (almeno un Servizio per ogni Azienda Sanitaria), assolutamente gratuito e senza richiesta di compartecipazione alla spesa, ma la strutturazione stessa del sistema, a bassa tecnologia ma ad alto impatto nel rapporto terapeuta – paziente, limita l’investimento possibile a poche migliaia di euro / anno. I Servizi  tossicodipendenze, infatti, sono limitati nel personale e vivono del paradosso che quanti più pazienti raggiungono quante meno risorse hanno a disposizione per la cura di ciascuno di loro. Le comunità terapeutiche, invece, hanno rette che, nel migliore dei casi corrispondono al costo necessario per il pernottamento in un albergo di livello medio/basso. Con quella cifra non dovrebbero, però, fornire solo alloggio e prima colazione ma la “pensione completa” ed, inoltre, anche curare, educare, riabilitare ecc. Va bene che, ogni tanto, si fanno i miracoli ma richiederli contrattualmente mi sembra esagerato.
Oggi siamo disposti a spendere moltissimo per curare qualunque tipo di patologia grave, esclusa la dipendenza patologica, perché  lo stigma è indelebile e non va cancellato, anzi va utilizzato amplificandolo e nutrendolo di retorica.
La separazione netta dei “buoni” dai “cattivi” nasconde, così, la realtà di una società che permette e promuove lo sfruttamento a fini commerciali della naturale tendenza alla dipendenza di chi la compone e sposta, di volta in volta, l’attenzione verso un nemico esterno e inanimato (la droga, la rete, la slot machine …) o concettuale (il proibizionismo o l’antiproibizionismo), pur di non mutare l’equilibrio precario, patologico ma denso di profitti che ha creato.
Ecco perché la lotta allo stigma che si collega alle dipendenze patologiche potrebbe spostare i piani logici di meccanismi socio-culturali ormai bloccati e contradditori e diventare un’azione concreta a favore di un reale progresso sociale.

Riccardo C. Gatti 1.6.13