crash-d-un-concorde-d-air-franceconcorde-accident-Quando un aereo decolla esiste un “punto di non ritorno”. Si tratta della velocità alla quale non è più possibile interrompere il decollo. Raggiunta questa velocità, infatti non c’è scelta: qualunque cosa accada bisogna continuare, decollare e impostare il successivo atterraggio. Una complicazione è data dal fatto che questa velocità non è fissa per ciascun aeromobile ma deve essere calcolata ogni volta tenendo conto di diversi fattori tra cui massa dell’aereo, caratteristiche della pista, situazione atmosferica. Ogni equipaggio deve considerare la possibilità di dover abortire un decollo ogni volta che si accinge a partire ed a portarsi, cioè, con l’aereo, da una situazione di parcheggio a terra ad una situazione di volo sicura che si ritiene raggiunta convenzionalmente una volta superati i 35 piedi (10,7 m.) di altezza dalla pista. Oggi, va detto chiaramente, l’attuale sistema di intervento sulle tossicodipendenze in Italia si trova ad un suo proprio “punto di non ritorno” e, poiché la situazione è molto critica, non è detto che riesca ancora una volta a prendere il volo di fronte ai nuovi problemi che deve affrontare. I motivi sono molteplici: la macchina è vecchia ma ancora abbastanza solida. Quando venne progettata era il meglio che ci potesse essere e molti ce la invidiavano. Ora però è troppo pesante perché è troppo carica, forse costa anche troppo e non ce la possiamo permettere. La pista è accidentata e corta; le condizioni atmosferiche sono avverse. La Compagnia aerea dice di partire. Vuole comunque garantire il Servizio. I piloti sono molto esperti ma la potenza dei motori è quella che è e qualcosa non funziona come dovrebbe anche se si fa finta di nulla. Partire ancora una volta? Il rischio del crash esiste e stiamo già rullando sulla pista. Bisogna decidere: fermarsi prima del punto di non ritorno o superarlo?

Ecco cosa mi scrive un collega: “ho iniziato 20 anni fa a lavorare al SERT, eravamo in tre (medico, assistente sociale ed io) con trenta pazienti e non si usavano neppure farmaci sostitutivi! Ora abbiamo 160 pazienti, tra alcolisti e tossicodipendenti, (rari i gamblers) e siamo di nuovo in tre: infermiera, assistente sociale ed io…….Quando dicono i SERT non servono a niente…. da una parte penso che, senza operatori, sia vero, dall’altra mi sento anche presa in giro….. E continuo a lavorare in prima linea, lontana dai giochi di potere e dall’ideologia, che purtroppo non aiuta a fare una buona clinica…… perdoni lo sfogo, ma vorrei smettere di tacere e tamponare le falle di un sistema autoreferenziale, che vuole solo dimostrare “formalmente” di funzionare…..”. Il collega, che mi scrive, lavora in uno dei SERT italiani (i servizi pubblici per le tossicodipendenze) ed è disperato perché vorrebbe lavorare meglio e con migliori risultati ma non ne ha la possibilità. Il problema è che di  messaggi così, scritti o a voce, ne ricevo sempre di più da ogni parte d’Italia. Il motivo è dichiarato dallo stesso collega che mi dice“…Lei ha un ruolo importante, anche pubblico e la mia testimonianza sarà un’altra piccola goccia che butto in un mare, che vorrei diventasse più compatto, se mai fosse possibile…… La ringrazio ancora moltissimo di cuore. Auguri per tutto”. Che dire? La situazione descritta parla da sola.

Vorrei fare un ritorno al “secolo scorso” e, cioè al Decreto Ministeriale 30 novembre 1990, n. 444. Regolamento concernente la determinazione dell’organico e delle caratteristiche organizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipendenze da istituire presso le unità sanitarie locali. Al decreto era allegata una tabella in cui i SERT erano suddivisi in tre tipologie di utenza: bassa (fino a 60 utenti contemporaneamente in trattamento), media (da 60 a 100 utenti), alta (da 100 a 150 utenti). Per la tipologia ad alta utenza erano previsti come necessari 4 medici, 4 Infermieri, 4 psicologi, 4 assistenti sociali, 2 educatori professionali, 1 amministrativo e 2 unità definite di “altro personale”. Si diceva inoltre “Qualora l’utenza sia superiore a 150 unità l’USL, conformemente alle determinazioni delle regioni e delle province autonome, adottate sulla base delle rispettive leggi, può potenziare l’organico; ove l’utenza superi le 300 unità può essere disposta una diversa organizzazione o lo sdoppiamento del Servizio”. Oggi abbiamo SERT che assistono contemporaneamente diverse centinaia di utenti con un organico un tempo previsto al massimo 150 assistiti. Un SERT a bassa utenza (fino a 60 utenti) doveva, invece, essere dotato di 2 medici, 2 psicologi, 2 assistenti sociali, 1 educatore e 1 amministrativo. Ebbene, la collega che mi scrive lavora in un SERT che ha meno della metà di questo personale per assistere più del triplo dell’utenza.  Ora i casi sono due: o nel “secolo scorso” (e sottolineo questa espressione anche se non sono passati nemmeno vent’anni), per qualche strano motivo, erano tutti “fulminati” e, quindi, sparavano numeri completamente a caso oppure qualcosa non funziona negli standard di oggi visto che, purtroppo, nessuna scoperta scientifica ha fornito il modo di curare un tossicodipendente senza dedicare tempo alla sua persona ed eventualmente alla famiglia o ai partner. Per questo motivo sostengo che oggi il sistema ha motori troppo poco potenti per alzarsi da terra in sicurezza e volare anche se, sino ad ora, in qualche modo, miracolosamente, lo ha fatto. Il problema, tuttavia è che, ora, deve ancora una volta rialzarsi in volo e, come sempre, è già in pista. Capiamo perché.

Sono convinto che il mercato della droga sia ad una nuova svolta epocale. Una situazione simile a quella che durante gli anni ’90 ha aggiunto, alla droga dei devianti e degli emarginati, la droga “per tutti”: il doping della vita quotidiana per le persone “normali”. E’ stata una “new economy” fatta di “grande distribuzione” e di “grandi numeri” basata sui consumatori occasionali più che sui tossicodipendenti. Oggi le cose stanno cambiando di nuovo: i mercati dei “beni di consumo” vacillano, la “new economy” finanziaria è crollata con i risultati che sappiamo e il mercato della droga ha bisogno di sicurezza. Dove la trova? Investendo nei giovani per mezzo dell’eroina. Non è un mercato dai numeri grandissimi ma, se l’operazione riuscisse (e sta riuscendo) potrebbe, rovinando un paio di generazioni, avere una base stabile di clienti eroinomani che si affiancherebbe ai consumatori (occasionali e non) di cocaina, cannabis e anfetaminici (tutti ancora in crescita). Mentre alcuni di questi “nuovi tossicomani” stanno arrivando ai SERT (per questo siamo già in pista), un sistema di intervento correttamente programmato dovrebbe garantire capienza per poter intervenire precocemente ed appropriatamente non solo a livello preventivo ma anche terapeutico su nuove fasce ampie di potenziali utenti che (attenzione!) non sono come “i tossicomani di una volta” ma hanno caratteristiche diverse.  Esiste la possibilità di farlo? Purtroppo, in molte situazioni questa possibilità ormai non esiste. Un SERT con tre operatori e 160 utenti, ad esempio, non ha modo di modularsi oltre la mera assistenza dell’emergenza. E le Comunità Terapeutiche? Tenendo presente che non sono il sostituto dei Servizi Ambulatoriali, dovranno rimodularsi anch’esse. Hanno ancora problemi di difficile soluzione per quanto riguarda il re-inserimento di persone emarginate e/o con problemi psichici e debbono affrontare contemporaneamente le esigenze di una possibile utenza differenziata, socialmente inserita, che non abbandona facilmente casa, famiglia, lavoro o scuola per un tempo indefinito affidandosi ad una generica speranza di “salvezza”. Anche qui, dunque, c’è da guadagnare una plasticità da cui (salvo casi particolari) siamo ancora distanti e che, inevitabilmente ha un costo e necessita di risorse. I nuovi eroinomani di oggi non sono come quelli del “secolo scorso”.

Cosa bisogna fare? Uscire dalla perversa ambiguità di chi sostiene l’inadeguatezza dell’intervento del Sistema senza domandarsi a cosa sia dovuta. Ci sono sempre più strutture che si avviano verso condizioni in cui non hanno alcuna possibilità di garantire interventi appropriati. Curare un tossicodipendente è un intervento costoso. O le risorse umane, professionali e strutturali per la cura sono pienamente disponibili o la cronicità (più o meno assistita) è garantita. Il numero di persone che fanno uso di droghe nel giro di pochi anni si è alzato con ritmi vertiginosi aumentando la domanda di cura reale e potenziale: le risorse a disposizione per l’intervento non bastano (più). La presenza di risorse non è condizione sufficiente per garantire l’appropriatezza degli interventi ma  è condizione necessaria. Comprendo che il momento economico sia difficile ma, d’altra parte, la situazione è questa. E se non ci sono realmente le risorse economiche per garantire interventi appropriati e per il tempo necessario a tutte le persone che ne avrebbero bisogno, decidiamo una volta per tutte a chi garantire l’assistenza gratuita e a chi non è possibile dare questa garanzia, ma preserviamo e aumentiamo la forza di un sistema organizzato in grado di proporre interventi appropriati, ben controllati e regolati anche se, magari, solo parzialmente convenzionati. Basta aprire gli occhi per accorgersi, ormai, come maghi, cialtroni e truffatori stiano buttandosi a pesce sugli spazi lasciati vuoti dal Pubblico e dal Privato Sociale. Questa abbuffata non deve essere permessa. Se la diffusione di droga crea gravi danni individuali e sociali, gli interventi inappropriati non sono da meno.

Insomma l’aereo è sulla pista e sta spingendo al massimo i motori, ha quasi raggiunto la velocità critica, ma, stando così le cose, non riuscirà a volare e ricadrà al suolo spaccandosi in mille pezzi e perdendo la sua funzione. Le vibrazioni sono già troppo forti, la struttura è in crisi e dei pezzi si stanno perdendo. Bisogna fermare la macchina prima del punto di non ritorno. Rivalutiamo i carichi, la capienza della macchina e la potenza di motori, ripariamo ciò che va riparato e ripartiamo anche a costo di cambiare qualcosa nel costo dei biglietti. Questo è un compito delle Regioni, che ora governano il sistema. Meglio un mancato decollo che un crash fatale ma rendiamoci anche conto che se la macchina non vola diventa comunque un pezzo da museo. Tutto il contrario di quello che serve al Paese. Dobbiamo volare e volare alto.

Riccardo C. Gatti 21.2.09