Nel settore delle dipendenze patologiche il concetto di doppia diagnosi ha destato, in questi anni, un particolare interesse che sembrerebbe riguardare non solo i clinici ma, più in generale, le persone e le organizzazioni che intervengono in questo settore. È quasi come se, dopo decenni, ci si fosse accorti che non è poi così facile curare in assenza di diagnosi e che, abbastanza frequentemente, nelle persone che si rivolgono a Servizi che si occupano di dipendenze e di abuso di sostanze, sono presenti disturbi, primari o secondari, di tipo psichiatrico che devono essere compresi e affrontati.

 Ritornando indietro nel tempo rispetto alla mia attività professionale, non posso dimenticare che, in un passato relativamente recente, le parole d’ordine ben presenti nell’intervento sulle dipendenze patologiche erano “non medicalizzare” e, ancor di più, “non psichiatrizzare”. Oggi, queste espressioni, vengono utilizzate meno frequentemente ma le conseguenze dei concetti che sottendevano sono ancora vive. Ciò può provocare una vera e propria frattura culturale, ideale ed anche operativa in diversi ambiti del sistema di intervento al punto di  compromettere, talvolta, la possibilità di intervenire nel modo più adeguato possibile su situazioni che richiederebbero, logicamente, un continuo di azione tra curare e prendersi cura. La diagnosi, teoricamente un mezzo per facilitare la comunicazione scientifica, può diventare strumento della frattura ed anche di vera e propria discriminazione. Rispetto a molti settori della cura un soggetto diagnosticato, o meglio, “etichettato” come alcolista o tossicomane diventa, così, improvvisamente … di competenza altrui: nel momento in cui esiste una “doppia diagnosi” la situazione peggiora. Particolare del nostro Paese, ad esempio, è il palleggiamento di pazienti tra psichiatria e tossicodipendenze quando un soggetto presenta sia disturbi psichiatrici che disturbi d’abuso di sostanze. In questi casi la disputa si svolge, di solito, attorno all’argomento di quale sia la diagnosi primaria e, di conseguenza su dove si collochi la competenza per la cura. Sebbene questo tipo di situazioni siano, evidentemente, paradossali continuano ad esistere.

 Alcuni miei maestri di clinica mi hanno insegnato che, quando una questione non è chiara, bisogna cercare di trovarne l’origine in qualcosa che sta a monte del problema che sembra più evidente.

Probabilmente anche in questo campo è così. La società, nel suo complesso, ma anche le singole persone che la compongono non sembrano aver raggiunto precise convinzioni rispetto ai fenomeni d’abuso di sostanze.

Spesso garantire la cura diventa un’azione dettata da considerazioni di opportunità (ed anche di sicurezza sociale) piuttosto che dall’effettivo riconoscimento dell’esistenza di una patologia.

Il mandato sociale ai Servizi tossicodipendenze è sempre stato relativamente ambiguo: molto più indirizzato al contenere i problemi e, forse, le persone, piuttosto che a curare e, possibilmente, a guarire.

Basti pensare, ad esempio, alla differenza di investimenti realizzati per prevenire e curare particolari forme di dipendenze patologiche piuttosto che altre: sembra correlata al fatto che la sostanza utilizzata sia legale piuttosto che illegale, ed alla difficoltà di riconoscere, anche organizzativamente e clinicamente, quanto labile sia, per molti soggetti, il confine tra illegale e legale nel momento in cui la loro esistenza si costruisce attorno al poliabuso. Risultato: nonostante la grande esperienza maturata in decenni, oggi, la persona che si presenta con una dipendenza da alcol, un abuso di oppiacei e un contemporaneo disturbo psichiatrico, ha difficoltà a trovare una risposta terapeutico riabilitativa adeguata e integrata.

Le difficoltà aumentano quanto più la situazione è grave. Le risposte tendono, così, a scotomizzare parti del problema favorendo la soluzione delle questioni più critiche, emergenti o socialmente disturbanti e accantonando le altre. In questi casi la diagnosi, seppur possibile, è sempre soltanto abbozzata perché in mancanza di interventi adeguati la prognosi non può essere che incerta.

 In molti servizi territoriali ci accorgiamo che, processi diagnostici validati ed alla portata di chi in questi Servizi opera, non vengono applicati nella prassi operativa o, almeno, non vengono riportati nelle documentazioni dei singoli casi, quasi come se non fosse necessario comunicarli e utilizzarli.

Anche dopo corsi di formazione di buon livello l’utilizzo di strumenti diagnostici sembra diventare quasi un’esercitazione intellettuale o un momento di ricerca scientifica piuttosto che uno strumento di lavoro.

Ciò, naturalmente, genera un meccanismo vizioso. La mancanza di esperienza condivisa, confronto, comunicazione e utilizzo della diagnosi come strumento decisionale nella prassi operativa clinica, finisce per rendere il processo diagnostico meno attendibile, meno valido e, soprattutto difficilmente perfezionabile.

Addirittura il concetto di doppia diagnosi rischia di essere utilizzato come una vera e propria … diagnosi (quel paziente è un “doppia diagnosi”) avvitandosi su di sé in un atteggiamento mentale che chiude possibilità anziché aprirne. In tutti gli altri ambiti della clinica, la compresenza di due patologie diverse non viene definita con il termine di “doppia diagnosi”: ci sarà pure una ragione anche per questo.

 Sono comunque convinto dell’irrinunciabile importanza dell’esistenza di un processo diagnostico e di una diagnosi (più che una doppia diagnosi) per ogni persona che si accosta ad un sistema d’intervento che si definisce come sistema terapeutico clinico.

 Probabilmente, chi lavora in questo settore, percepisce sempre di più che l’approccio clinico rimane ancora il modo migliore per affrontare ciò che è problema sociale in quanto patologia. Tuttavia si rende anche conto del rischio di identificare impropriamente come patologia tutto ciò che è problema sociale.

L’interesse per la clinica, infatti, non può prescindere dall’interesse per la persona sofferente ma è una perversione pensare che qualsiasi sofferenza possa essere affrontata dalla prassi clinica.

 Affrontare una patologia in modo adeguato senza prescindere dallo stato dell’arte delle conoscenze è la base per costruire una sinergia eticamente corretta con il paziente e per uscire dalla logica del “servizio contenitore” e generatore di cronicità assistita e, quindi, per affrontare un problema sociale nel rispetto della cura dei problemi individuali. Tuttavia, per fare ciò, occorrerebbe utilizzare la diagnosi non solo per definire quando c’è patologia ma anche per precisare quando non c’è oppure, ancora, quando la patologia non è clinicamente curabile.

 La diagnosi, in generale, e la diagnosi di comorbidità, in particolare possono, dunque, essere la chiave di volta per costruire un salto di qualità nell’intervento nel settore delle dipendenze patologiche che, ormai, pare necessario. Tuttavia la diagnosi deve essere utilizzata per quello che è: la parte di un processo clinico complesso che deve coinvolgere chi vi è sottoposto. Se questo processo non si sviluppa o non può essere sviluppato affrontando le complessità che gli sono proprie, il risultato rimane esclusivamente un controproducente strumento di etichettamento.

 Purtroppo c’è ancora chi rifiuta il confronto, la comunicazione ed il progresso nell’intervento che ne può derivare, perché ritiene più opportuno arroccarsi staticamente sulle posizioni di sempre. I motivi di questo arroccamento sono diversi. Non diagnosticare, ad esempio, permette di non confrontare l’esistenza del processo terapeutico-riabilitativo e, quindi, riduce la possibilità di valutare ed anche di essere valutati. Non diagnosticare permette di non fare prognosi e, quindi, di non “prendere impegni” con la propria capacità professionale e con il paziente; inoltre permette di farsi carico di quella parte di patologia che si ritiene più interessante o più affrontabile, scotomizzando con facilità tutto ciò che non si vuole vedere.

Inoltre, in assenza di patologia, la “non diagnosi”, lascia aperta la strada per addossare a qualcosa di indefinito la possibile responsabilità per il fallimento di interventi educativi, di reinserimento o, comunque, non clinici.

La mancanza di diagnosi è, complessivamente,  un buon meccanismo di difesa che può essere giustificato, anche in modo (perversamente) sofisticato sino ad arrivare, nell’interesse del paziente e della terapia, a negare i fondamenti del processo clinico. Quando sono presenti situazioni psicopatologiche di comorbilità, l’operazione di negazione della diagnosi diventa, però, particolarmente pericolosa in quanto può costituire una importante base di cronicizzazione del singolo paziente e la “scusa” .

 La clinica è un processo dinamico che si costruisce, si modifica e si perfeziona nel tempo avendo a che fare con la salute ma anche, più in generale, con la condizione umana nel suo complesso. Essere terapeuta significa cogliere la dinamica del “qui e ora” con il paziente costruendo un processo individuale proiettato realisticamente nel futuro, nonostante la malattia.

 In questo senso credo che il termine “doppia diagnosi”, dovrebbe essere abbandonato in quanto fuorviante rispetto ad una condizione umana in cui la presenza di più patologie di diversa gravità nella stessa persona non è poi così eccezionale da dover trovare un termine particolare per definirla.

Per una serie di ragioni differenti, soprattutto di tipo culturale, costruendo programmi per “doppia diagnosi”, non differenziandoli per le diverse forme di patologia e di gravità che questo termine sottintende, si rischia di impoverire le possibilità di intervento terapeutico-riabilitativo.

Il paziente “doppia diagnosi” rischia di diventare quello per cui diventa necessario il trattamento in una struttura apposita. Ma se, come ci avvertono alcuni studiosi di questo settore, una patologia psichiatrica (primaria o secondaria all’uso di droga o alcol) è riconoscibile in molti soggetti che si rivolgono ai Servizi per le Tossicodipendenze ed anche ai Servizi Psichiatrici, quali diagnosi psichiatriche associate all’uso di sostanze rendono necessarie strutture apposite e perché? Quale livello di gravità o, comunque, quale indicatore è associabile alla necessità di intervenire con programmi differenti da quelli “individualizzati e multidisciplinari” che dovrebbero, comunque, essere messi in atto nei Servizi già esistenti?

 Abbandonerei il termine “doppia diagnosi” perché rischia di contribuire rapidamente alla costruzione di una nuova categoria di utenza indefinita (quasi come se i “doppia diagnosi” fossero tutti eguali) con Operatori, Servizi, Strutture e Canali di finanziamento dedicati, prima ancora che in questo settore si sia diffusa la prassi di strutturare un corretto inquadramento diagnostico multidisciplinare, validato e confrontabile, non strettamente limitato al solo campo sanitario, per ogni persona che si accosta al sistema di intervento.

Dovrebbe essere una regola, ma rimane solo una prospettiva, che ad un accurato processo diagnostico (e prognostico) consegua un intervento che sappia veramente cogliere l’articolazione di quanto diagnosticato, valorizzando ciò che, nella diagnosi, permette di cogliere, soprattutto, le differenze e non l’omologazione in categorie omogenee.

 Ciò, tuttavia, impone agli Operatori del settore la necessità di differenziare e precisare maggiormente le loro peculiarità professionali; ai Servizi di realizzare processi diagnostici qualificati e programmi terapeutici conseguenti maggiormente differenziati e misurabili nei risultati; agli Amministratori e a chi si occupa di programmazione di calcolare e mettere a disposizione le risorse necessarie per rendere questo processo possibile. In caso contrario la doppia diagnosi rischia di essere meno di una diagnosi.

Riccardo C. Gatti