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Una recente inchiesta di Panorama ha il titolo “L’hai provata l’ultima” ed è accompagnata da un claim : “4 milioni di italiani hanno assunto sostanze illecite nell’ultimo anno (10% della popolazione tra i 15 ed i 64 anni)”. Gradualmente sembra che i media si siano accorti che la situazione è pericolosa. Dopo un relativamente lungo periodo di oblio, la questione droga sembra più presente, almeno temporaneamente, a livello di cronache ed inchieste giornalistiche.  A livello politico, tuttavia, il problema droga e abuso di sostanze lecite e illecite, gode di una attenzione molto bassa, pur essendo ancor più grande di come viene normalmente rappresentato dai media.

Panorama, infatti, riferendosi a studi del CNR, parla di sostanze illecite ma se a questi numeri aggiungessimo l’abuso di sostanze lecite (es. abuso di alcol, alcolismo e binge drinking, dipendenza da farmaci, legalhighs, tabagismo) i dati potrebbero tranquillamente lievitare …e di molto. Con una stima molto approssimativa potremmo avvicinarci al 30% della popolazione tra i 15 ed i 64 anni visto che i fumatori sono, secondo una stima Doxa del 2015 il 20,8% degli italiani e che, secondo ISTAT, i comportamenti di consumo di alcol che eccedono rispetto alle raccomandazioni per non incorrere in problemi di salute (consumo abituale eccedentario e binge drinking) riguardano 8 milioni e 265 mila persone (15,2% della popolazione, dal 15,9% nel 2013). L’abuso e la dipendenza da farmaci (es. farmaci psicotropi ed antidolorifici oppiacei), invece, non è così indagata e sottoposta a survey come quella da droga e da alcol ma solo perché è, probabilmente, sottovalutata nella sua dimensione. Se venissero fatte indagini, includendo anche la popolazione al di sopra dei 64 anni, i risultati potrebbero anche sorprenderci, proprio in tema di abuso e misuso di farmaci.

Ma com’è possibile che un tema che potrebbe riguardare la salute e l’interazione sociale di quasi un cittadino su tre, o in versione più ottimistica, uno su quattro, non sia compreso nelle priorità politiche del Paese? Come mai (non può essere un caso, quando avviene contemporaneamente a livello dello Stato centrale ed in tutte le Regioni italiane) il sistema di cura dedicato alle dipendenze patologiche compreso nel Servizio Sanitario Nazionale perde progressivamente rilevanza all’interno dello stesso sistema Sanitario e Sociosanitario di cui fa parte?

Le ragioni di questo atteggiamento non sono, a prima vista, chiare. Per quanto riguarda le priorità politiche alcuni osservatori notano che, ormai, sia all’interno della maggioranza che dell’ opposizione, convivono anime fortemente proibizioniste ed altre francamente antiproibizioniste. Quindi, il tema droga, potrebbe portare ragioni di frattura all’interno di alleanze che, come spesso avviene in questi ambiti, hanno una solidità relativa. Da altri punti di vista si potrebbe fare una diversa notazione. Ci si sta accorgendo che la popolazione coinvolta in comportamenti di abuso o dipendenza è sempre più ampia: ciò che un tempo era considerabile (a ragione o a torto) l’atteggiamento di una minoranza “deviante” oggi deve avere una diversa considerazione, se non altro per motivi numerici. Risultato: al di là dei pronunciamenti di parte, c’è una più ampia tolleranza per questi fenomeni che, di per sé, non sono più considerabili “emergenze” quanto, piuttosto, una parte dell’ordinaria realtà. Probabilmente anche per questi motivi, gradualmente ed in modi differenti, i sistemi di cura dedicati del Servizio Sanitario Pubblico, Servizi Tossicodipendenze (Ser.T.) e relativi Dipartimenti, nati sull’onda di emergenze successive, sono ora gradualmente ridimensionati. Sempre più Regioni, inoltre, sembrano organizzare l’offerta di cura delle dipendenze patologiche nell’ambito della gestione della cronicità, più che per la prevenzione della stessa. Sembrano aver percepito alcuni concetti fondamentali che arrivano dai tecnici di settore:

  • la tossicodipendenza è una patologia cronica e recidivante
  • la tossicodipendenza è una malattia del cervello

E’ così che, gradualmente, spariscono i Dipartimenti Dipendenze e le Unità di Offerta vengono collocate all’interno del Dipartimenti di Salute Mentale.

Il risultato è che l’attuale Sistema di Interventoviene gradualmente disarticolato (scompaiono Dipartimenti e Strutture) da una parte, ma non nascono nuove Unità di offerta, dall’altra. Troppe azioni, pur lontane dall’emergenza, rimangono vincolate ad iniziative progettuali a termine, anche quando dovrebbero essere ragionevolmente stabilizzate e portate a regime.

In pratica si tratta di una vera e propria inversione di tendenza. L’intervento sulle dipendenze nasce su successive emergenze e, quindi, per affrontare situazioni vissute come “acute”. Ora, invece, fuori dall’emergenza, viene orientato alla gestione di pazienti definibili come malati mentali, cronici e recidivanti.

Finita l’ideologia dell’emergenza, è come se si ragionasse su un fenomeno ormai concluso.

Credo che questo risultato sia legato a due fattori principali:

Il primo è connesso al ridimensionamento dell’offerta pubblica in tema di salute. Già spendiamo, in tema di salute, mediamente di meno di altri Paesi ma le finanze pubbliche italiane parrebbero essere con l’acqua alla gola. Il nostro Sistema Sanitario Nazionale, da tempo, non è più un sistema assicurativo con un corretto rapporto tra entrate ed uscite e, quindi, sta semplicemente collassando economicamente. Può essere che si riesca a meglio ottimizzarlo, ma con una popolazione sempre più vecchia ed il costo della diagnostica e di certi tipi di farmaci che aumenta … un ridimensionamento è inevitabile. Per il futuro, come persone e come Paese, la prospettiva non è quella di essere più ricchi. Quindi non è il solo settore della cura delle dipendenze patologiche ad impoverirsi.

Il secondo è legato ad una sorta di corrente di pensiero manageriale, che ipotizza di risparmiare, in molti ambiti di cura e prevenzione mantenendo efficienza, eliminando le strutturazioni settoriali e verticali “chiuse” (silos) che, attualmente, regolano il Sistema Sanitario e trasversalizzando tutto in grandi aree aperte di intervento relativo ai bisogni socio-sanitari ed assistenziali (es. il materno-infantile, i giovani, gli anziani, i cronici ecc.). In questo senso, quindi, non esisterebbe più il settore della cura delle dipendenze patologiche, nato per occuparsi contemporaneamente in modo specializzato di prevenzione, terapia e riabilitazione delle dipendenze. Verrebbe sostituito da settori più generalisti, in grado di farsi aspecificamente carico dei problemi di una particolare fascia di popolazione, costruendo risposte ad hoc, non necessariamente specializzate. La destrutturazione in corso del settore, quindi, risponderebbe ad un più generale progetto di cambiamento della organizzazione del sistema sociosanitario.

Qui nasce, tuttavia, un problema che forse non è stato sufficientemente analizzato. Ciò che i manuali diagnostici definiscono “un disturbo mentale” è normalmente associato ad un livello significativo di disagio o disabilità in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti. Livelli significativi di disagio o disabilità si notano, infatti, nella maggior parte dei pazienti cronici in cura per problemi di dipendenza, ma ciò non significa che coinvolgano la maggior parte di persone dipendenti o a rischio di dipendenza patologica. Il tabagismo, ad esempio, è senz’altro una dipendenza patologica ma, sebbene condivida a livello cerebrale determinati meccanismi con altre dipendenze da sostanze, difficilmente notiamo, nel tabagista, disagio o disabilità così come sono intese per i “disturbi mentali”. La stessa situazione è riscontrabile in molte dipendenze da farmaci che, a volte, si cronicizzano e possono durare una vita, senza che si manifestino altri disturbi se non quelli collegabili agli effetti collaterali o indesiderati, anche gravi, del farmaco.

Senza voler estremizzare aderendo al pensiero di chi interpreta sempre la dipendenza come una scelta ed un comportamento e non come una malattia, posso anche ipotizzare, almeno a livello di dubbio, che esista un discreto numero di persone che contraggono forme di dipendenza da sostanze che si manifestano in modo molto distante da quello rappresentato dalle malattie mentali che, normalmente, curano gli psichiatri. Tra queste persone sono anche compresi tutti coloro che hanno contratto una dipendenza patologica e, poi, ne sono usciti, magari con fatica, con l’aiuto di una unità di offerta specializzata o, anche, da soli.

A questo punto si potrebbe anche concludere che, essendo la tossicodipendenza una patologia cronica e recidivante, chi ne è uscito definitivamente, da solo o con l’aiuto di terzi, … non è tossicodipendente. Oppure, viceversa, sostenere che cronicità non significa inguaribilità. Tuttavia, ritornando ad espressioni precedenti, potremmo definire che, almeno come tendenza, “il Servizio Sanitario si sta orientando ad occuparsi di dipendenze come malattie mentali, soprattutto in fase conclamata quando siano origine di disagio e disabilità”. Abbiamo, così, ristretto il campo in modo realistico, specialmente se il “disagio” è inteso come qualcosa che può riguardare sia il paziente, sia chi lo circonda.

Restringere il campo, quindi, non significa solo dare una definizione più precisa ma anche indirizzarsi ad un target preciso di persone; non a tutti coloro che usano droghe, abusano di sostanze lecite o hanno comportamenti additivi (di addiction) a rischio, anche non legati a sostanze.

C’è, tuttavia, una questione di cui i programmatori non sembrano aver tenuto sufficientemente conto. A differenza della “salute mentale” tradizionale, dove l’incidenza di patologia nella popolazione è abbastanza stabile nel tempo, il mondo delle dipendenze e dell’uso/abuso di sostanze lecite ed illecite vede, in una situazione endemica relativamente costante, l’esplosione periodica di situazioni epidemiche, generalmente impreviste, che tendono a diventare velocemente molto problematiche perdurando per anni e influenzando la vita di più generazioni. I costi individuali e sociali di queste epidemie, se non affrontate in modo adeguato e rapidamente, sono altissimi.  La percentuale di persone che perdono il controllo delle conseguenze delle loro scelte aumenta e non è detto che ciò che ne consegue siano necessariamente o solo disturbi mentali conclamati. Ovviamente gli interventi relativi debbono essere modulati diversamente, a seconda dei casi, ma sicuramente richiedono, per essere efficaci, di unire alte competenze specialistiche multidisciplinari con la capacità di strutturare rapidamente setting dedicati per azioni precoci.

Solo un sistema dedicato, differenziato, flessibile e sufficientemente dotato di risorse, può riformularsi per affrontarle e contenerle in modo adeguato. Più difficilmente lo può fare un sistema più statico e povero di risorse che deve rispondere a bisogni complessi definiti e mono-specialistici, orientandosi principalmente sulla gestione della cronicità.

Contemporaneamente le strutture generalistiche trasversali (non dedicate) potrebbero, proprio per la loro natura, avere difficoltà a fornire risposte strutturate. In mancanza di solide competenze specifiche e di un “secondo livello” altamente differenziato e specializzato, avrebbero comunque difficoltà per la costruzione di setting di intervento dedicati (proprio per la loro natura generalista).

Insomma, la prossima epidemia di consumo/abuso e dipendenza di sostanze, potrebbe travolgere il Sistema di intervento che oggi si sta organizzando. Speriamo non accada, ma il rischio c’è. L’osservazione di ciò che accade in altri Paesi d’oltre oceano, ma anche nella vicina Europa, dovrebbe essere sufficiente per comprendere cosa significhi non riuscire a prevedere l’evoluzione di fenomeni che, in questo campo, possono assumere aspetti epidemici e non avere un sistema di intervento dedicato, coordinato e sufficientemente differenziato in area sociale, educativa e sanitaria che sia in grado di rispondere in modo rapido, specifico, multidisciplinare e specializzato ai bisogni che si presentano.

Sono uno psichiatra e da sempre mi occupo di dipendenze patologiche. L’esperienza mi ha insegnato che prevenire o risolvere problemi di dipendenza o di comportamenti additivi solo dal punto di vista della mia disciplina, così come dal punto di vista di qualunque altra presa singolarmente, è un limite che va superato. Quando gli interventi rimangono circoscritti ad un unico ambito, per quanto siano eclettici i professionisti che vi operano, il rischio di incontrare questo limite è forte. Per la persona questo significa un maggior rischio di cronicità assistita quando, invece, ci sarebbero diverse possibilità di evitarla. In questo senso, fuori o dentro i Dipartimenti di Salute mentale (non è questo il problema), occorrerebbe espandere le possibilità ed i livelli di intensità degli interventi (e non solo di quelli di cura) anziché comprimerli.

La auspicata “trasversalità” degli interventi dovrebbe concretizzarsi non tanto nell’incorporare, in questo o in quel settore, strutture che rimangono uguali a se stesse, quanto nel costruire “hub” intesi come luoghi in grado di fornire alle reti esistenti di intervento azioni di livello diverso, che oggi non esistono, integrando esperienze di settori differenti per costruirle.

Il problema dell’attuale sistema di intervento, infatti, è che, pur essendo in grado di dare una discreta risposta alla gestione della cronicità, riesce solo debolmente e salvo eccezioni, ad avere un posizionamento adeguato per prevenirla.

Su questo bisognerebbe agire ma non mi sembra che oggi si stia programmando in questo senso.

Riccardo C. Gatti