Siamo una società “additiva” perché sui comportamenti additivi si basa la “cultura” della fidelizzazione al consumo. Il consumo è figlio di un bisogno e, per questo, i mercati inducono bisogni per indurre consumi. Questo avviene per ogni cosa ed anche ad ogni costo.

Si sfrutta una sorta di naturale tendenza alla dipendenza, che abbiamo e la nostra innata voglia di essere diversi da ciò che siamo, di sperimentare nuovi percorsi e di pensare che l’alterazione sia una vera forma di liberazione dalle nostre ansie. Quando il percorso di alterazione riesce in modo artificiale e condizionato perdiamo parte della nostra identità: rischiamo così di ancorarci a ciò che ci consente di essere ciò che siamo diventati. La dipendenza da qualcosa o da qualcuno diventa così una difesa e una ragione di vita, il nostro nuovo instabile equilibrio patologico.

La psichiatria ha classificato alcune di queste situazioni descrivendo quelli che chiama “Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction”: una formulazione pacata ma ha che fare con storie difficili di persone che gradualmente smarriscono parte delle loro capacità, degli affetti, dei ricordi, delle relazioni, delle emozioni, della sessualità e della possibilità di progettare. E non ci sono solo i disturbi correlati a sostanze ma anche quelli legati a situazioni e comportamenti additivi: il gioco d’azzardo patologico ne è un esempio. Il meccanismo di alterazione funziona e imprigiona, anche se è difficile accettare che si possa perdere il controllo.

Spiegare e spiegarsi come tutto ciò sia possibile non è facile, se non ricordando che anche l’aereo più moderno e tecnologicamente avanzato può precipitare e, quando lo fa, difficilmente esiste una unica causa. Un insieme di concause si uniscono in un determinato momento e superano le capacità di controllo dei piloti e dei computer. Da quel momento, il destino è segnato. Precipitare in una dipendenza patologica o perdere il controllo di sé, quando si usano sostanze psicoattive, non è facile ma nemmeno tanto difficile: la soglia che separa le situazioni a rischio dalla patologia conclamata è molto sottile.

E poiché le persone a rischio sono proprio quelle che producono maggior guadagno comprando alcolici, droghe, gioco, tabacco ecc. in quantità, c’è chi investe non poco per generare situazioni di consumo additive. Queste occasioni, infatti, aumentano, ma l’allarme sociale è mantenuto basso dalla convinzione indotta che a rischio sono “altri”,  più fragili, più ignoranti o più deboli e che basti comportarsi “responsabilmente” per risolvere ogni problema.

I mercati hanno così spazio culturale per espandersi, mentre l’amplificazione del concetto di “fragilità” individuale collegato alle dipendenze patologiche, fa si che i sistemi sanitari e sociali vengono attrezzati soprattutto per la gestione della cronicità che ne deriva e che pare qualcosa di “scientificamente” inevitabile. Apparentemente tutto risulta “politicamente corretto”.

In realtà sarebbe come se, invece di prevenire il cancro o di curarlo precocemente, ci organizzassimo soprattutto per fornire cure palliative ai pazienti terminali.

La dipendenza patologica è una malattia molto grave, sempre invalidante, talvolta mortale e spesso colpisce persone giovani, segnandone tutto il percorso di vita. Gestirne la cronicità è corretto: si tratta di un problema reale. Farlo, tuttavia, senza investire fortemente per prevenirla e per curare precocemente la patologia, con appropriatezza e adeguata intensità è un grave errore.

Ma è realisticamente possibile organizzarsi diversamente?

La risposta è si, senza dubbio. Se le condizioni che possono far cadere un aereo si concentrano in un tempo relativamente breve, le condizioni che portano ad una persona prima in una situazione di rischio e, poi, in una dipendenza patologica richiedono un tempo molto lungo per svilupparsi e concatenarsi tra loro: di norma diversi anni. Anni in cui si potrebbe intervenire con successo. Se l’uso di sostanze e le situazioni di dipendenza patologica possono anche essere causa di decisioni “alterate”, di azioni imprevedibili o scatenare altre patologie, ciascuna delle persone coinvolte non è, per principio, un deviante, un emarginato, un fragile, un diverso o un violento: è uno di noi, così come lo è si chiude nel gioco patologico o in qualunque altra compulsiva dipendenza.

Migliorare la comunicazione ed i processi educativi nonché le occasioni di prossimità, la trasversalità di azione preventiva di tutto il sistema sociosanitario (non solo delle attuali Strutture dedicate), incrementare in modo coordinato l’accessibilità delle unità di offerta specializzate e la differenziazione dei percorsi di cura, dovrebbe essere un compito primario.

Ripensiamo ad altre patologie che possono essere croniche, invalidanti o mortali. E’ normale fare test di controllo, parlarne con il medico di medicina generale o con lo specialista, tener conto della possibilità della loro presenza “subclinica” al momento di una visita o di un ricovero eseguiti per altri motivi. Tutto ciò usualmente non si verifica per quanto riguarda le dipendenze patologiche.  Spesso eludiamo il problema perché un intervento più incisivo correttamente progettato e gestito sinergicamente richiede maggiori investimenti anche nei termini di comunicazione, formazione e gestione dei rapporti con le persone: pensiamo non ne valga la pena. Ciò che detta legge è soprattutto la volontà, poco dichiarata, di controllo sociale per il contenimento della devianza più che il desiderio di generare opportunità per curare e prendersi cura precocemente. Ci sono dipendenze patologiche gravi, soprattutto da sostanze legali, di cui nemmeno si parla perché non generano devianza.

Il disimpegno che ne deriva, in termini preventivi e di trattamento, favorisce i consumi e ne aumenta i costi conseguenti. Così, in termini di vite spezzate, di famiglie distrutte, di invalidità, di interventi di emergenza urgenza, di cure croniche, di trattamenti per patologie correlate, di assistenza sociale, di conseguenze per fatti di cronaca ed incidenti, nonché di spesa per sostanze d’abuso legali e illegali e per il gioco patologico, continuiamo a pagare un prezzo altissimo.

E poiché il prezzo da pagare è molto alto, altrettanto alti sono gli incassi di chi ci guadagna. I “mercati” della dipendenza e dell’abuso (legali o illegali) sono, infatti, estremamente potenti e variegati. Rispetto ad altri mercati, che lavorano su prodotti che hanno una funzione determinata come computer, smartphone, case, abbigliamento, automobili, alimentari o materie prime, trattano, infatti, oggetti il cui acquisto è totalmente collegabile ad investimenti del nostro immaginario, che è in grado di individuare significati e ragioni di consumo senza limiti. Sono consumi che si associano a concetti di libertà nell’alterazione, al divertimento, alla socialità, alle fantasie di potenza e di benessere, all’invincibilità, alla salute (nota bene: alla salute, non alla malattia) oppure ad un incoercibile bisogno, una volta instaurata una dipendenza. In questo senso chi li propone ha potenzialità enormi: sono tanto più grandi quante più sono le persone che adottano comportamenti a rischio.

Per questo i mercati stessi agiscono in modo che si continui a sottovalutare il problemi che generano o a considerarli, comunque, irrisolvibili, parte della natura umana e, quindi, inevitabili. Si abbassano così le resistenze culturali e vengono inibiti gli investimenti operativi che possono essere di reale contrasto. Chi li propone è considerato un visionario, poco incline a misurarsi con la realtà dei fatti.

Non voglio essere troppo generalista, parlando di “mercati”. Non possiamo paragonare le mafie, ai produttori di alcolici, alle case farmaceutiche, ai produttori di sigarette, ai gestori del gioco d’azzardo ecc. mettendo tutti sullo stesso piano. E’ ovvio che si debbano fare dei distinguo. Ma è abbastanza chiaro che, anche da altri settori commerciali, viene una spinta forte a consumi che, magari, sono scelti consapevolmente, ma con scarsa capacità critica. Per gran parte del commercio, prima di tutto, viene il fatturato. Non so dire se, in assoluto, sia un bene o un male, ma per quanto riguarda  prodotti che hanno a che fare con comportamenti additivi è senz’altro un problema. Così, se direttamente nessuno ha interesse a provocare danni ai clienti, nemmeno i trafficanti di droga e gli spacciatori, molti investono sui comportamenti a rischio e ne traggono profitto. La risultante è una tragica realtà che, probabilmente, non abbiamo presente se non quando ci tocca direttamente da vicino.

Di volta in volta l’interesse dell’opinione pubblica viene concentrato su una singola emergenza che cambia nel tempo in modo che, osservando solo una parte, sia quasi impossibile avere una visione realistica del tutto.

La cosa è funzionale al fatto che tutto resti così com’è.

Intanto nel mondo, ogni anno, si stimano circa 250 mila decessi direttamente causati da droghe (ma stiamo probabilmente parlando solo di overdose accertate), più di tre milioni per alcol (cui bisognerebbe associare anche gli incidenti stradali e sul lavoro alcol-correlati), sei milioni per il tabacco (le stime variano a seconda delle fonti ma, in generale, sebbene approssimati questi sono i numeri). Poi ci sono i decessi per l’abuso o l’uso improprio di farmaci (per esempio i farmaci oppiacei) i cui dati sono più lacunosi, probabilmente per la carenza di accertamenti tossicologici e di sistemi di osservazione. Solo negli USA dal 1999 al 2015, sono morte più di 183,000 persone per overdose correlate a farmaci oppiacei, ma anche i decessi per overdose, correlati all’uso di benzodiazepine, stanno salendo e sono, ormai, un terzo di tutti quelli causati da overdose da farmaci.

Ora, qualunque altro evento in grado di uccidere più di NOVANTA MILIONI di persone nel giro di un decennio verrebbe considerato con maggiore attenzione, tenendo presente che, oltre ai decessi, provoca invalidità ed handicap in un numero ancora maggiore di soggetti, direttamente o a causa di patologie croniche.

Insomma, per dare una ulteriore dimensione alla cosa, è come se in meno di dieci anni una nazione molto più grande dell’Italia, con tutti i suoi abitanti, sparisse dalla faccia della terra.

Per questo quando sento trattare con “sufficienza” il tema delle dipendenze e dell’abuso di sostanze, quando mi accorgo che esiste molta (troppa) superficialità anche nelle analisi di cosa si potrebbe fare per contenerne le conseguenze, quando osservo la mancanza di una visione strategica in termini preventivi, quando condivido con i colleghi di settore una estrema difficoltà non solo per avere più risorse per la cura, ma anche per abbattere lo stigma sociale che riguarda i nostri pazienti e noi stessi, quando vedo nelle persone che si accostano a comportamenti a rischio una inspiegabile sicurezza, quando leggo nella politica ma anche negli amministratori e nello stesso sistema sanitario la volontà di semplificare ogni cosa, non solo mi inquieto ma anche mi interrogo sulle ragioni di tutto ciò.

Purtroppo le spiegazioni che trovo alle mie stesse domande non mi rassicurano. Sbaglio?

Riccardo C. Gatti