sbarreL’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza.
“La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo rappresenta un nuovo grave richiamo” per l’Italia ed è “una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”, è stato il commento del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
I giudici della Corte europea hanno constatato che il problema del sovraffollamento carcerario in Italia è di natura strutturale, e che il problema della mancanza di spazio nelle celle non riguarda solo i 7 ricorrenti: la Corte ha già ricevuto più di 550 ricorsi da altri detenuti che sostengono di essere tenuti in celle dove avrebbero non più di 3 metri quadrati a disposizione. La richiesta europea all’Italia è quindi anche quella di dotarsi, entro un anno, di un sistema di ricorso interno che dia modo ai detenuti di rivolgersi ai tribunali italiani per denunciare le proprie condizioni di vita nelle prigioni e avere un risarcimento per la violazione dei loro diritti. (brani tratti da La Repubblica.it 8.1.2013).

Ci hanno provato tutti a dire che la situazione, così, non va e che le carceri italiane sono sovraffollate e inumane. E’ ancora il Presidente della Repubblica durante una sua recente visita a San Vittore a dire, inoltre: «La responsabilità del trattamento e della risocializzazione non può essere affidata solo all’amministrazione penitenziaria ma deve coinvolgere tutte le articolazioni sociali: scuola e famiglia, istituzioni religiose, associazioni di volontariato, mondo del lavoro». E su questo il presidente ha insistito: «Al mondo imprenditoriale e della cooperazione sociale, pur nell’attuale momento di crisi, va chiesto adeguato supporto» (Fonte Corriere.it).
Ben sappiamo, oltre a ciò, che molte persone, detenute, hanno anche problemi di dipendenza patologica e potrebbero essere curate in luoghi alternativi al Carcere. Percorsi alternativi alla detenzione, in molti casi, non solo sarebbero auspicabili ma sono, di fatto, un diritto negato: la normativa che li permette esiste. Per quanto ci si possa sforzare a realizzare setting dedicati, infatti, il carcere non è un luogo di cura e … nemmeno ci assomiglia. Se una persona, dopo aver compiuto reati, sconta una pena ma rimane tossicodipendente, le sue possibilità di uscire dal circuito criminale, una volta uscita dal carcere, sono molto prossime allo zero.
E’ bene considerare il tutto con attenzione perché, indipendentemente dalle idee che ciascuno ha rispetto al significato della carcerazione, per chi ha commesso un reato, la detenzione, i processi e tutto ciò che direttamente o indirettamente fa parte dell’ “esecuzione della pena”, rappresenta un insieme di attività molto costose. Così, al di là di ogni considerazione più elevata, eticamente ed organizzativamente, se il tutto non porta ad alcun cambiamento … sono soldi buttati. Di questi tempi, si tratta di un lusso che non ci possiamo permettere.

E’ utile anche sapere che discorsi, che pure si sentono fare, del tipo “al posto di incarcerare i tossicodipendenti per reati minori … mettiamoli in comunità terapeutica”, non sono tecnicamente percorribili per tre motivi: 1) considerando le pene da scontare, non ci sono fisicamente posti a sufficienza; 2) le comunità terapeutiche non sono “magazzini” dove scaricare la gente, nel presupposto che “tutto è meglio del carcere”, ma luoghi dove realizzare un percorso che richiede un alto livello di condivisione per essere efficace; 3) se tutte le comunità fossero occupate (solo) da persone che stanno scontando una pena, gli interventi residenziali dedicati a persone che non hanno mai compiuto reati diventerebbero impossibili.
Apparentemente, dunque, non sembra esistere soluzione al problema ma, a mio parere, non è così. Il Presidente della Repubblica dice: «Al mondo imprenditoriale e della cooperazione sociale, pur nell’attuale momento di crisi, va chiesto adeguato supporto». La richiesta è corretta: di fronte ad una emergenza ognuno deve fare la sua parte, ma qui non siamo solo di fronte alla necessità di dimostrare una buona volontà che già esiste ma di costruire una organizzazione ad hoc che manca. In una situazione difficile, è necessario, quindi, non solo chiedere supporto, ma anche darlo. In pratica occorre costruire un sistema riabilitativo esterno al carcere che sia in grado di produrre risultati efficaci e, nello specifico di ciò che mi occupo professionalmente, di curare contemporaneamente le dipendenze patologiche. Ma per costruire la possibilità di ampliare i centri residenziali e semiresidenziali, di preparare personale specializzato per costruire nuovi programmi terapeutico-riabilitativi, di costruire una continuità tra lavoro residenziale e lavoro territoriale e, poi, di rendere disponibili, sempre a livello di territorio possibilità reali di reinserimento sociale occorrono nuove risorse. Dove trovarle?
Forse già ci sono, almeno in parte, a patto di orientarle diversamente.

Sono, infatti, convinto che se fossero messe a disposizione, per ogni detenuto da inserire nei percorsi terapeutico – riabilitativi, le stesse risorse giornaliere complessive, attualmente necessarie per mantenerlo in carcere e nel circuito penale, la soluzione si troverebbe. Occorrerebbe attenzione, bisognerebbe lavorare e programmare evitando semplificazioni ed ingenuità, ma ciò che manca oggi, per riabilitare le persone, non è l’esperienza né la dedizione e nemmeno la volontà: manca una “imprenditoria sociale” che abbia risorse per dare un respiro sufficiente all’azione in questo ambito e c’è bisogno di tempo per progettare, preparare, formare ed organizzare. Rendendo più fluidi alcuni percorsi di non carcerazione ed orientando la spesa diversamente, la risorsa a disposizione di ciascun soggetto, per attuare un programma, potrebbe essere molto più alta di quanto oggi è messo a disposizione.
Ho la sensazione che l’idea della alternativa alla pena fosse già viziata in origine da un “non detto” che aveva a che fare con il contenimento delle spese, senza alcun investimento. Si è ragionato, cioè, su “benefici di legge” che rendevano possibile evitare il carcere “iso-risorse”,  mantenendo cioè lo stesso budget per il Sistema penale, addirittura scaricandone parte dei costi sul Sistema sanitario. Se è così si è trattato di un errore di programmazione il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel momento in cui la spesa sanitaria veniva ridotta da successive manovre di “spending review”, i SERT hanno ridotto il personale, e quindi la loro capacità erogativa, e le Comunità non hanno potuto aumentare la loro recettività mentre molti programmi riabilitativi “ponte” sono rimasti progetti a termine, più o meno sperimentali, finanziati con fondi sempre più incerti. Nel frattempo, sempre per ridurre le spese, ciascun Carcere si è trovato a custodire un maggior numero di detenuti. Un concetto di “efficienza contenitiva” che fa a pugni con l’articolo 27 della Costituzione che enuncia: “Le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Risultato: in carenza di un sistema riabilitativo e terapeutico efficiente, chi delinque in relazione ad una dipendenza patologica (o con una dipendenza patologica come concausa) ha ben poche possibilità di sottrarsi dal circuito criminale, che diventa la sua reale fonte di sussistenza. L’impianto dell’alternativa alla pena viene utilizzato, anche in modo molto strumentale, per garantirsi condizioni generali migliori di quelle della detenzione (dai detenuti) e come bacino di compensazione per l’affollamento delle carceri (dal sistema penale) ma rimane carente proprio per la mission curativa propria del Servizio Sanitario, che se ne assume gli oneri. Sia l’azione penale che l’azione di cura perdono, così, efficacia costruendo di fatto una “REVOLVING DOOR” tra sistema di controllo e sistema di cura che finiscono per sovrapporsi in modo poco efficiente e, probabilmente, poco efficace.

La mia “idea indecente” è molto semplice: visto il numero di detenuti che avrebbero diritto di poter accedere a misure alternative alla pena, per affrontare la tossicodipendenza, si potrebbero chiudere alcune carceri rafforzando il sistema dei SERT dal punto di vista socio – riabilitativo ed aumentando la capienza delle Comunità Terapeutiche e dei Centri Diurni, con le risorse risparmiate dalla dismissione di quelle carceri. Non dimentichiamo che, parlando di droga, ci riferiamo ad almeno un detenuto su quattro. Poniamo pure che la nostra popolazione di riferimento, su cui è effettivamente possibile realizzare programmi di cura, sia più ridotta per motivi diversi: in presenza di un circuito terapeutico – riabilitativo efficiente e ben organizzato si potrebbe dismettere un carcere ogni 5 o 6.  Non si tratta di un processo semplice ed avrebbe bisogno di investimenti e di fasi sperimentali per una attuazione progressiva e la realizzazione di programmi ad hoc ma … se mai si comincia è chiaro che si continuerà a parlare di una  situazione carceraria insostenibile, senza far nulla di concreto per cambiarla.

Riccardo C. Gatti 25.3.2013